DOI. 10.17398/1886-9440.14.21

 

Azzurra Marcucci

(Università di Firenze)

Roma arcaica negli Elogi degli uomini illustri di Paolo Giovio. Fra storiografia e iconografia

Archaic Rome in Paolo Giovio’s Elogi degli uomini illustri. Between historiography and iconography

 

Abstract: Paolo Giovio’s Elogi degli uomini illustri is a good example of that actualizing use of the past, especially of the ancient one, typical of the early modern age. Through the use of the ancient historiography, both Greek and Latin, skilfully reworked in its own way, and with the mediation of image, the comasco humanist presents the two founders of Rome, Romulus the warrior-king and Numa Pompilius the priest-king, as archetypical figures as well as models from which to draw for useful lessons to bring the city back to the centre of the international political scene.

Key Words: historiography, iconography, Romulus, Numa Pompilius, Roman antiquities, modern culture.

 

Riassunto: Gli Elogi degli uomini illustri di Paolo Giovio costituiscono un valido esempio di quell’uso attualizzante del passato, specie di quello antico, proprio della prima età moderna. Attraverso il ricorso alla storiografia antica, sia greca che latina, sapientemente rielaborata in maniera autonoma, e con la mediazione dell’immagine, l’umanista comasco presenta i due fondatori di Roma, Romolo re-guerriero e Numa re-sacerdote, come figure archetipiche nonché modelli a cui attingere per trarne lezioni utili a riportare l’Urbe al centro dello scacchiere politico internazionale.

Parole Chiave: storiografia, iconografia, Romolo, Numa Pompilio, antichità romane, cultura moderna.

 

Fecha de Recepción: 28 de mayo de 2019.

Fecha de Aceptación: 25 de octubre de 2019.

 

 

 

1.                                                                                                                                                                                             Premessa

Lo studio del profondo legame esistente tra storiografia e retorica, dall’Antichità al Rinascimento, può essere arricchito in maniera significativa dall’analisi di testi come gli Elogi degli uomini illustri di Paolo Giovio, emblema di quella «letteratura delle immagini»[1] che ha caratterizzato il XV e il XVI secolo trovando applicazione anche nella scrittura della storia. L’opera dell’umanista comasco si rivela preziosa non soltanto per indagare quanto gli storici classici, sia latini che greci, abbiano influenzato certa letteratura di epoca rinascimentale, ma anche e soprattutto per comprendere come la storiografia di stampo umanistico abbia saputo servirsi dell’immagine quale strumento retorico funzionale a quel processo di attualizzazione del passato fondato sul principio della similitudo temporis, in virtù del quale la lezione degli antichi costituiva la fonte prediletta da cui ricavare insegnamenti utili per il presente. In tal senso, l’analisi degli elogi gioviani e dei rispettivi ritratti, presi in esame nella seconda parte del presente contributo, in particolare di quelli dedicati ai due fondatori di Roma, può offrire un valido esempio della concezione rinascimentale della storia intesa come narratio rerum gestarum, nonché della storiografia quale mezzo attraverso cui trasmettere ai contemporanei, specie ai governanti, i precetti desunti dagli exempla antichi.

 

 

2.                                                                                                                                                                                             Il progetto storiografico di un intellettuale moderno

Il nome e la fama di Paolo Giovio[2] sono comunemente associati alla collezione di ritratti custodita dall’umanista nelle sale della villa di Borgovico, sulle rive del lago di Como, considerata, a buon diritto, come l’archetipo della moderna concezione di museo. La posa della prima pietra del Museo gioviano pare debba collocarsi nell’autunno del 1537,[3] sebbene il progetto risalga a molti anni addietro forse già al 1504, anno in cui Paolo Giovio compose la sua opera prima, un’epistola latina indirizzata a Giano Rasca e incentrata sulla descrizione, in stile pliniano,[4] della villa di famiglia situata nelle campagne vicino Lissago, da cui sembra già emergere quel «rabbioso capriccio del edificare»[5] che indusse poi l’umanista comasco a intraprendere l’ambiziosa, e dispendiosa, impresa del Museo.[6]

La questione relativa alle origini del progetto e la possibilità di datare con precisione la prima idea di realizzare il Museo assumono una rilevanza che va al di là del mero dato cronologico. In particolare, a proposito delle ragioni che spinsero Giovio a costruire la villa di Borgovico, si deve ipotizzare l’esistenza di motivi più profondi rispetto alla cogente necessità di trovare uno spazio adatto a ospitare la ricca collezione di ritratti che l’umanista aveva iniziato a raccogliere a partire dagli anni Venti del Cinquecento.[7] D’altro lato, un ulteriore elemento da considerare per comprendere il contesto culturale in cui la nascita del museo gioviano si colloca è il crescente desiderio di conoscere i volti dei poeti, dei filosofi e degli eroi greci e romani che, a partire dalla metà del XIV secolo e ancor di più nei due secoli successivi, si affiancò alla riscoperta dell’antico.[8]

In questa fase lo studio e la ricostruzione delle verae effigies degli antichi divennero l’oggetto prediletto delle ricerche degli Umanisti, tanto degli intellettuali quanto degli artisti incaricati di affrescare con le immagini di illustri personaggi del passato le stanze e le biblioteche dei principi per cui lavoravano.[9] La volontà di rafforzare la memoria di uomini celebri indusse talora ad accompagnare le gesta tramandate dalle opere scritte con una testimonianza iconografica, suscitando d’altro lato anche l’aspirazione dei moderni a essere accostati alle figure che popolavano le pareti dei loro palazzi, spingendoli a servirsi delle immagini degli antichi non solo come exempla virtutis[10] ma anche quale simbolo di un’ideale continuità, talvolta culturale, più spesso politica, tra passato e presente.[11] In questa prospettiva non stupisce che gli antichi, e in particolare i Romani, divennero in breve tempo i protagonisti assoluti degli ornamenti pittorici che decoravano i palazzi delle nobili famiglie quattrocentesche e trovarono spazio sia nelle gallerie di uomini illustri, sia nei cicli di storie ispirate alle vicende dell’Urbe.

Se le origini del Museo gioviano risultano incerte, almeno sul piano cronologico, ciò che invece appare inconfutabile è l’anno, il 1543, in cui fu completata la costruzione della villa di Borgovico come testimoniava l’iscrizione posta all’ingresso dell’edificio oggi nota grazie alla trascrizione che ne fece Anton Francesco Doni nel luglio dello stesso anno in una lettera “alla burlesca”.[12] Poiché, com’è noto, il complesso andò distrutto dopo essere caduto progressivamente in rovina, a causa anche dei numerosi allagamenti, ed essere stato utilizzato persino quale sede dei quartieri militari spagnoli, per ricostruire l’esatta fisionomia dell’edificio si rivelano fondamentali la testimonianza di Doni e altre tre descrizioni letterarie del Museo, tra cui una lettera di Benedetto Giovio al fratello risalente al 1542, un’altra epistola di Doni, questa volta “seria”, che segue di pochi giorni la precedente, e la descrizione offerta dallo stesso Giovio.

Sebbene la Musaei Ioviani Descriptio, che in molte edizioni moderne, sul modello di quella del 1546, precede gli Elogia, non sia l’esposizione più dettagliata ed esaustiva tra le quattro esistenti e tale primato spetti senza dubbio alla descrizione “seria” di Doni, essa si rivela comunque preziosa per comprendere quale fosse la concezione gioviana dell’antichità classica. In tal senso è significativa innanzitutto l’affermazione con cui Giovio sosteneva che il suo Museo sorgesse sulle rovine della villa di Plinio il Giovane di cui restavano tracce anche sul fondo del lago dove era ancora possibile scorgere marmi, colonne e piramidi. Il fatto che l’umanista fosse in realtà consapevole della falsità di tale attribuzione, dal momento che i resti appartenevano alla villa di Caninio Rufo, induce a interrogarsi sulle ragioni della sua insistenza nel manipolare un dato storico, atteggiamento tanto più ingiustificato nel caso di un intellettuale come Giovio che affiancava alla sua vena da collezionista un profondo senso della storia, di cui dà prova in particolare nelle Historiae sui temporis, un’opera storica nella quale il Comasco, in linea con la lezione lucianea del De conscribenda historia, rivela un profondo senso critico e un’assoluta fedeltà agli eventi.[13]

La risposta a questo interrogativo è offerta dallo stesso autore che sottolineava come le vestigia della villa pliniana conferissero al Museo dignità e autorevolezza, a loro volta foriere di gloria e ammirazione, evidenziando inoltre l’utilità dell’aver contribuito a rievocare il ricordo dell’illustre concittadino. Nel complesso, possiamo osservare come nell’ottica gioviana l’elemento antico, funzionale al recupero della memoria storica, offrisse dunque garanzia di auctoritas. In questo senso la scelta di attribuire le rovine a Plinio, che per primo aveva apprezzato e valorizzato il territorio comasco dove possedeva due ville, la “Tragedia” e la “Commedia”, poté servirgli per istituire un’ideale continuità tra se stesso, il suo progetto museale e l’autore latino.

L’edificio che ospitava il Museo, descritto da Giovo come una sorta di locus amoenus circondato da una natura verdeggiante e perennemente immerso in un clima primaverile, si presentava articolato su due piani: a quello inferiore si trovavano il cortile d’ingresso, l’atrium, affrescato con le scene di quattro imprese che furono poi d’ispirazione per il Dialogo dell’imprese militari e amorose,[14] e un primo portico denominato Personata, in ragione delle maschere (ognuna accompagnata da un motto) che vi erano appese in omaggio alle due ville comasche di Plinio. Grazie ad esso si entrava nella Sala delle Muse, eponima dell’intera villa[15] e deputata a ospitare, almeno in parte, l’ampia collezione gioviana di ritratti. Questa stanza permetteva inoltre l’accesso alla coenatio, o Portico delle Grazie, e a quattro cubicola tra i quali la Sala di Minerva, decorata con le effigi di antichi e illustri comaschi, la Sala di Mercurio, adibita, stando allo stesso Giovio, a biblioteca, la Sala delle Sirene, ornata con motti inerenti il tema della saggezza, e la Dorica porticus, detta anche Portico del Parnaso per via di una serie di dipinti raffiguranti l’ascesa al monte dei poeti, tra i quali molti contemporanei dell’umanista comasco. Più scarna appare invece, in tutte e quattro le fonti, la descrizione del piano superiore della villa costituito, come sappiamo, da sei stanze, di cui si ignora l’ubicazione ma non le denominazioni: Sala della Virtù, Sala dell’Onore, Camera del Paragone, Camera Sforzesca, Camera del Moro e quella del Diamante.

Dal punto di vista strettamente architettonico il Museo doveva richiamare il tipo della villa classica, descritto anche nelle epistole pliniane, seguendo al contempo i dettami vitruviani, sebbene tra le due strutture esistesse un divario che può essere identificato come aspetto primario per il progetto gioviano, nonché innovazione significativa introdotta dall’umanista comasco: a differenza delle ville romane, in cui, di consueto, vi era una sola stanza o un solo ambiente dedicato al ricordo e alla celebrazione degli antenati per lo più attraverso medaglioni che raffiguravano i membri dell’intera stirpe, nel caso del Museo l’intera villa[16] era consacrata alla celebrazione di personaggi, non più, o non soltanto, esponenti della famiglia Giovio, bensì rappresentanti dell’umanità in genere. Di fronte alla mancanza di un modello teorico adatto a dare conto delle diverse personalità umane, secondo uno schema che andava oltre la prassi medievale,[17] Giovio dovette inventare un nuovo ‘contenitore’ per la prima volta pensato per un pubblico esterno alla ristretta cerchia degli amici e dei parenti, come si evince anche dalla Musaei Ioviani Descriptio in cui l’autore afferma che la sua villa era regolarmente frequentata dai suoi concittadini.[18]

La questione dei destinatari, o per meglio dire dei fruitori, del Museo e in particolare dei ritratti è solo in apparenza di secondaria importanza giacché, a ben guardare, risulta strettamente connessa all’idea che Giovio aveva in merito all’utilità della collezione nonché alla sua concezione storica. In tale prospettiva si può condividere quanto osservato da alcuni studiosi moderni circa il senso della concezione storiografica gioviana, ovvero a proposito dell’importanza e del peso che l’umanista attribuiva ai singoli nello svolgersi degli eventi e della sua identificazione dell’uomo quale vero «creatore della storia».[19] Tale prospettiva, tesa a valorizzare i protagonisti e caratterizzata da un particolare gusto per i dettagli, anche quelli anatomici o legati all’abbigliamento, appare, almeno in parte, in linea con la tendenza propria del Rinascimento ad attribuire un ruolo centrale all’individuo e sembra d’altro lato rifarsi alla condotta proto-umanistica di Petrarca per il quale narrare la storia significava di fatto ripercorrere le gesta e le vite dei viri illustres.

Sebbene l’attenzione di Giovio per aspetti all’apparenza insignificanti, come appunto le notazioni relative all’aspetto fisico o alle abitudini di un personaggio, e per elementi coloristici sia stata a lungo considerata quale espressione di una smodata curiosità e abbia spesso determinato una valutazione negativa dell’attività dell’umanista in qualità di storico,[20] vi possiamo leggere la chiara volontà di offrire al lettore non soltanto una ricostruzione attendibile degli eventi ma anche un’immagine visiva degli accadimenti narrati, in linea con la predisposizione dell’autore a non trascurare la dimensione iconografica che ne accomunava tutta la produzione letteraria e che trovò compimento nel Museo. Alla luce di quanto detto emerge con evidenza come la villa di Borgovico e i numerosi ritratti in essa custoditi non fossero semplicemente il risultato della passione collezionistica dell’umanista comasco, quanto piuttosto la concretizzazione di un’idea in cui si potrebbe cogliere l’esito del progetto di un intellettuale per cui arti visive, ricerca storica e opere letterarie concorrevano tutte al medesimo fine: educare gli uomini contemporanei mediante la conoscenza degli uomini del passato, spesso antico.[21]

Per quanto concerne l’articolazione della collezione gioviana, è verisimile che – come è stato proposto–[22] l’umanista comasco possedesse oltre quattrocento ritratti, sebbene qualsiasi congettura sia resa difficile dalla perdita di gran parte di essi, come della maggior parte delle opere d’arte conservate a Borgovico, se si eccettuano i circa quaranta tuttora visibili al museo civico di Como. Per tentare di ricostruire e descrivere la collezione, la storiografia moderna[23] si è comunque avvalsa di alcuni preziosi supporti, come l’edizione Perna degli Elogia, pubblicata a Basilea tra il 1575 e il 1578, parzialmente illustrata dalle incisioni di Tobias Stimmer,[24] la descrizione dei ritratti offerta dallo stesso Giovio nell’edizione del 1546 ma soprattutto la galleria di ritratti ospitata agli Uffizi, quasi omologa di quella di Borgovico perché costituita dalle copie dei ritratti gioviani eseguite da Cristofano di Papi detto l’Altissimo per volontà di Cosimo I de’ Medici a partire dal 1552 quando Giovio era ormai prossimo alla morte.[25]

Nell’arco di oltre tre decenni l’umanista comasco riuscì a riunire un così grande numero di ritratti ricorrendo per lo più alla generosità di patroni, personaggi influenti o amici artisti ai quali si rivolgeva sollecitandoli affinché contribuissero all’ampliamento della collezione e lamentando le sue scarse disponibilità economiche, ma non dovettero essere rare le occasioni in cui lo stesso Giovio commissionò la realizzazione ex novo o la copia di alcuni ritratti. A tale proposito non stupisce il fatto che si ‘accontentasse’ di copie e di originali di scarsa qualità, posto che nell’ottica dell’umanista il valore del ritratto risiedeva nell’essere un documento storico, in quanto corrispettivo dell’immagine biografica. L’aspetto a cui egli prestava maggiore attenzione non era infatti la qualità pittorica del risultato finale, quanto piuttosto l’aderenza al vero. L’elemento che contraddistingue la collezione comasca, rispetto alle numerose raccolte contemporanee, è la ricerca della somiglianza,[26] un tratto che emerge con evidenza anche dall’abitudine di Giovio di riferirsi ai suoi ritratti chiamandoli verae imagines o imagines spirantes[27] e che deve essere ricondotta alle sue ambizioni di storico, fortemente influenzate tanto dalla lezione di Luciano quanto da quella di Tucidide. Se dall’uno aveva tratto l’aspirazione al rispetto assoluto della verità, dell’altro condivideva la necessità di offrire una ricostruzione oggettiva dei fatti e delle vicende che poteva essere raggiunta solo a costo di un attento lavoro di indagine e di ricerca delle fonti da parte dello storico.[28] È in tal senso che l’intera collezione di ritratti si configurava per Giovio come un’«operazione storiografica»[29] la cui attendibilità si fondava sul valore documentario dei dipinti determinato, in parte, dal fatto che i volti in essi raffigurati riproducevano, almeno secondo l’artefice del progetto,[30] i reali lineamenti dei personaggi, anche grazie al supporto documentario offerto da raccolte numismatiche,[31] in parte dall’idea gioviana che i visi e le espressioni potessero riflettere la personalità dei viri ritratti,[32] concezione che di fatto pone l’umanista comasco tra i precursori della moderna fisiognomica.[33]

In ultima analisi è dunque possibile affermare che i ritratti collezionati da Giovio, veri e propri strumenti di conoscenza, tanto della storia quanto delle personalità di coloro che la storia l’avevano “creata”, possono essere considerati la perfetta sintesi del suo pensiero, oltre che la viva espressione dei suoi interessi storico-antiquari, e rappresentano, con il loro valore documentario,[34] la principale ragione su cui si fonda l’originalità del Museo come luogo, per finalità, ‘complementare’ alla narrazione storica.

D’altro canto, come evidenziato da parte della storiografia moderna, la villa di Borgovico costituiva solo una delle molteplici declinazioni della passione di Giovio per i protagonisti della storia antica, in particolare quella romana, la cui lezione doveva essere non soltanto recuperata ma anche salvaguardata dagli effetti demolitori del tempo contro cui il ricorso all’immagine sembrava non bastare.[35] È in questo senso che va sottolineato come, guidato dal proposito di vincere l’eterna lotta col tempus edax da un lato, e dall’aspirazione a riscoprire l’antichità in una prospettiva omnicomprensiva dall’altro, l’umanista comasco decise di affiancare, o per meglio dire integrare, la collezione di ritratti con una raccolta di medaglioni biografici.

L’origine degli Elogia e il loro profondo legame con il Museo di Borgovico emergono del resto con evidenza da una lettera inviata a Giovio dal fratello maggiore Benedetto nel 1542,[36] che sembra quasi richiamare la Musaei Ioviani Descriptio per l’attenzione rivolta alle rovine romane su cui fu edificata la villa comasca, sebbene a ben vedere la prospettiva si riveli opposta. A differenza di Paolo, che ammirando le antiche vestigia istituiva una continuità tra i resti dell’edificio pliniano, appartenuto, come sopra ricordato, a Caninio Rufo, e la nuova costruzione da lui realizzata al fine di garantire prestigio e autorevolezza al Museo, Benedetto guardava alle colonne e ai marmi superstiti quali testimonianze concrete della caducità delle realizzazioni umane, spronando perciò il fratello minore a porre il Museo al riparo dall’azione distruttrice del tempo mediante il ricorso alla letteratura.

In tal senso, richiamandosi ai moniti forniti a riguardo da Sallustio (Bellum Iugurthinum, II, 3) e da Ovidio (Metamorfosi, XV, 1), gli suggeriva di affidarsi al potere eternizzante della scrittura capace di garantire la sopravvivenza presso i posteri del ricordo della villa di Borgovico e del nome di Giovio.[37] Che gli Elogia siano nati in funzione, e a supporto, del Museo e in particolare della collezione dei ritratti è dimostrato anche dalla descrizione dell’ordine dei dipinti contenuta nella prefazione dell’editio princeps, da cui emerge come il progetto letterario gioviano dovesse essere in realtà più ampio di quello effettivamente realizzato, dal momento che i ritratti erano organizzati in quattro sezioni: una dedicata ai letterati morti, una per i letterati viventi, una incentrata sugli artisti e una destinata a pontefici, re e comandanti.[38] Tuttavia, com’è noto, videro la luce soltanto due volumi: quello riservato ai letterati defunti e quello consacrato agli uomini d’arme, entrambi strutturati secondo un ordine cronologico, a cui devono essere aggiunti le tre biografie di Leonardo, Michelangelo e Raffaello.

A fronte dell’evidente finalità pratica perseguita dagli Elogia, non deve però essere dimenticato il loro valore autonomo, inquadrabile sulle orme del modello iconografico-letterario inaugurato da Petrarca che –come è noto– rielaborando un celebre motivo oraziano, aveva posto l’attenzione sull’insufficienza delle immagini[39] e sottolineato la necessità di sopperirvi con la scrittura affinché l’osservatore dei dipinti degli uomini illustri, leggendone le gesta, potesse seguirne l’esempio.[40] In tale prospettiva è utile ricordare come le pitture padovane della Sala dei Giganti, che di per sé costituiscono un monumento di cultura storico-antiquaria più che d’arte figurativa, al pari del Museo gioviano, presentassero in origine una struttura tripartita, in cui l’effige era accompagnata da una rappresentazione semplificata delle imprese compiute dal personaggio ritratto e da un titulus che metteva in luce la personalità, le virtù e i costumi dell’eroe, pensata come soluzione per affrontare le difficoltà connesse alla trasposizione iconografica di un’opera storica quale era il De viris illustribus.[41]

D’altra parte, la tradizione proto-umanistica, in cui accanto alla raccolta biografica di Petrarca possono essere ricordati anche il De casibus virorum illustrium di Boccaccio e il meno noto De poetis latinis di Pietro Crinito, non era la sola a offrire a Giovio dei modelli, se ricordiamo che già autori antichi, come Svetonio e Plutarco,[42] si erano cimentati in opere volte a ricordare e celebrare le vite e le gesta di uomini famosi, né in precedenza erano mancate raccolte che accostavano al racconto degli eventi brevi epigrammi e ritratti, come nel caso del perduto Hebdomades vel de imaginibus libri XV di Varrone.[43]

In linea con la tradizione classica risulta anche la scelta del titolo in cui il termine ‘elogia’ deve essere interpretato ‘alla latina’, nel significato originario di ‘iscrizione’, ben lontano quindi dall’accezione celebrativa che ha assunto nel linguaggio moderno, dal momento che, come lo stesso Giovio dichiarava nella descrizione dell’ordine dei ritratti, gli uomini illustri presenti nella sua collezione offrivano modelli positivi da imitare ma anche modelli negativi da evitare. Anche gli Elogia si rivelano, dunque, contraddistinti da quello stesso approccio sincero, improntato a una ricerca storica e a una ricostruzione fedele degli eventi, che caratterizzava tanto le Historiae quanto i ritratti del Museo. Per comprendere meglio il reale significato del titolo adottato da Giovio in relazione alla sua concezione storica e contro ogni possibile fraintendimento dettato da un’errata equivalenza tra il termine elogium e il termine ‘encomio’, è significativo quanto affermato dall’umanista comasco in una lettera risalente al 1534-1535, scritta in risposta alle critiche di Girolamo Scannapeco in cui egli evidenziava con chiarezza come la storia, che «ha la luce di verità», sia cosa ben diversa dall’encomio, che invece «ha i luoghi di retorica, e loda l’uomo a bandiere spiegate».[44] È sulla base di questa distinzione e della certezza che per Giovio l’elogium non fosse affatto sinonimo di encomio che gli Elogia possono essere considerati a tutti gli effetti come un’opera profondamente intrisa di aspirazioni storiografiche.

Per quanto concerne il percorso editoriale, conviene ricordare che gli Elogi degli uomini d’arme illustri furono pubblicati per la prima volta nel 1551 in sette libri per un totale di centotrentaquattro biografie, ognuno dei quali reca una diversa dedica indirizzata a Cosimo I de’ Medici. Le principali differenze rispetto alla precedente raccolta incentrata sui letterati sono rappresentate dalla lunghezza dei singoli testi, poiché i primi si presentano decisamente più brevi rispetto ai secondi, nonché dallo ‘stile’, dal momento che gli elogi degli armati procedono secondo uno schema diacronico in cui solitamente si ripercorrono, nell’ordine, l’infanzia, l’ascesa al potere o l’assunzione di ruoli di responsabilità, le battaglie e poi si dà conto del giudizio dei contemporanei prima di narrare i tempi e le circostanze della morte, a differenza di quanto accade per i letterati le cui esistenze sono ricostruite in maniera frammentaria e non lineare. D’altra parte, gli anni intercorsi tra il primo e il secondo volume degli Elogia si rivelano alquanto significativi alla luce del fatto che in quell’arco di tempo Giovio fu impegnato nella stesura delle Vite dei dodici Visconti, pubblicate nel 1547, che costituirono una sorta di ‘palestra’ in vista della compilazione delle biografie degli armati, caratterizzate da uno spiccato interesse per l’aspetto fisico del personaggio, in particolare per l’espressione del volto, per gli occhi e per la foggia dei capelli, che non trova riscontro negli elogi dei letterati. In direzione di una più stretta correlazione tra testo scritto e immagine sembra andare anche l’uso della formula sub effigie seguita dal nome del personaggio al genitivo adottata per gli armati, nonché il frequente ricorso a espressioni come haec imago, a riprova del fatto che l’autore descrivesse i ritratti presupponendo che il lettore potesse osservarli.[45]

 

 

 

3.                                                                                                                                                                                             I ritratti retorici di Romolo e Numa nell’opera gioviana

La scelta di avviare gli Elogi degli uomini d’arme illustri con la biografia di un eroe che della storia dell’Urbe non fu soltanto un protagonista ma anche l’iniziatore, ovvero il primo re Romolo, seguita da quella di Numa, considerato come il secondo fondatore, costituisce l’elemento che più denota il vivo interesse dell’umanista comasco per l’antichità romana. Tale decisione, in apparenza priva di un particolare significato e frutto di una mera impostazione cronologica, può al contrario assumere una certa rilevanza soprattutto in considerazione del fatto che per la stesura del precedente volume degli Elogia dedicato ai letterati Giovio non era risalito ad un’epoca antecedente al XIII secolo. L’esigenza di accogliere anche personaggi dell’antichità classica può essere considerata come un ulteriore indicatore del valore paradigmatico e archetipico che l’umanista comasco attribuiva agli uomini illustri di Roma, a partire dai protagonisti, più o meno mitici, dell’epoca arcaica della storia dell’Urbe.

D’altro lato, considerato l’ordine cronologico adottato da Giovio nella raccolta, non stupisce che l’elogium di Romolo si trovi in apertura del primo libro, subito dopo la dedica a Cosimo, sebbene il richiamo al merito del fondatore posto in incipit possa far supporre che la precedenza assicurata al re romano non fosse dettata solo dal fattore temporale ma fosse, almeno in parte, connessa al prestigio del personaggio. A tale proposito è interessante rilevare che lo stesso autore non esitava a informare il lettore che l’immagine di Romolo era a Roma la più famosa, la più importante e la più venerabile, facendo emergere come la fama fosse garantita dalla nascita prodigiosa e dal rispetto che una figura così antica incuteva, mentre l’importanza riconosciuta al fondatore era il frutto della stima che egli si era conquistato grazie alle gesta compiute, e la venerazione derivava dall’aspetto maestoso che caratterizzava sia il corpo sia il volto del sovrano. D’altra parte, non è escluso che la decisione di Giovio di aprire questa seconda raccolta di elogia con la figura di Romolo, seguita da quella di Numa con la quale costituisce a ben vedere una sorta di dittico, debba ricondursi all’influenza esercitata in quegli anni dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio di Machiavelli.[46] L’umanista fiorentino aveva infatti accostato i due sovrani romani nell’ambito di una più ampia riflessione sul primato delle armi o della religione nel governo dello stato, inaugurando di fatto la dicotomia tra Romolo, re guerriero, e Numa, re sacerdote,[47] divenuta poi tradizionale.

L’umanista comasco tratteggiava il profilo di Romolo alla luce della tradizione letteraria, riprendendo la leggenda della nascita miracolosa e definendone le imprese immortali forse proprio in virtù della sua origine divina. Nondimeno la matrice iconografica dell’elogium si può cogliere nell’insistenza sul concetto di immagine e nell’importanza attribuita all’aspetto fisico del fondatore che poteva essere ammirato grazie a una statua marmorea posta vicino alla chiesa di San Lorenzo in Damaso.[48]

Quanto alla ricostruzione delle vicende biografiche inerenti al primo re di Roma, nel ripercorrerle in breve, Giovio poneva l’attenzione soprattutto sul suo ruolo di fondatore non soltanto della città ma anche di quella disciplina militare su cui si era costruito il potere di Roma destinato a durare in eterno, in virtù della sua presunta discendenza da Marte.[49] Sebbene l’attenzione prestata all’indole guerriera di Romolo sia riconducibile alla tradizione storiografica antica, già recepita anche da Petrarca,[50] nel continuo richiamo al potere militare di Roma garantito da eserciti invincibili e nel riferimento alla centralità delle armi, che caratterizzano il medaglione romuleo di Giovio, si può cogliere il riflesso della concezione della storia dell’umanista comasco e della sua interpretazione delle vicende contemporanee in cui l’azione dei condottieri, guidati da principi capaci di sciagurati ordini militari, si era rivelata determinante nella rovina dell’Italia.[51] In un simile contesto di crisi, a Giovio dovette apparire necessario volgersi indietro a recuperare il modello di Roma antica, eccellente esempio di virtù e di disciplina grazie all’opera di comandanti che potevano offrire un modello anche per l’Italia del XVI secolo.

Quanto alle fonti, malgrado nella composizione degli elogia di Romolo, Numa, Alessandro e Artaserse si noti l’uso prevalente di informazioni tratte dalle Vite plutarchee, è probabile che nell’attribuire rilievo al potere delle armi nella sezione romulea l’umanista abbia tratto ispirazione dal τῶν ὅπλων κράτος attorno a cui ruotava il discorso attribuito al re fondatore nella Storia di Roma arcaica di Dionigi di Alicarnasso, in cui era istituito un profondo legame tra il governo della città e la presenza di un esercito professionale.[52]

D’altro lato, è interessante notare che dopo aver celebrato la Roma ‘guerriera’ erede della lezione offerta dagli antichi comandanti, tra cui lo stesso Romolo, Giovio non si asteneva dall’evidenziare che l’Urbe fosse anche la Città Santa, ovvero la sede da cui avevano avuto origine i fondamenti della vera religione, quella cristiana. A questo proposito, non si può escludere che con tale scelta egli intendesse suggerire l’idea, analoga a quella elaborata da Biondo Flavio quasi un secolo prima, che il Papato rappresentasse il vero erede della lezione e della tradizione di Roma antica, capace di garantire la protezione e la libertà di tutte le nazioni riunite sotto l’egemonia romana recuperando quel modello «sicuro ed eterno» basato su un’«autorità improntata alla sacralità».[53]

In questa prospettiva va forse inquadrata anche la decisione di Giovio di avviare la raccolta degli Elogi degli uomini d’arme illustri sotto il segno di Romolo e di Numa, i primi due re considerati rispettivamente come il costruttore della città, nonché fondatore del suo potere attraverso le guerre di conquista, e l’artefice del sistema religioso dell’Urbe, ovvero colui che per primo introdusse la dimensione del sacro a Roma. Anche sotto tale aspetto il punto di vista gioviano[54] può ritenersi influenzato dalla lettura che Machiavelli aveva offerto di Romolo e Numa attribuendo al secondo re il merito di aver mitigato l’indole bellicosa dei Romani mediante l’introduzione di nuovi culti e l’istituzione di sacerdozi che indussero nel popolo il timore degli dei.[55] D’altro lato, la prospettiva dell’umanista comasco appare alquanto distante da quella di uno storico e giurista a lui contemporaneo, sebbene di provenienza francese, quale François Baudouin, autore dei Libri duo ad Leges Romuli regis Rom.- Leges XII. Tabularum, che nell’analisi della legislazione romulea poneva particolare attenzione ai provvedimenti in materia religiosa evidenziando l’impegno profuso dal fondatore nell’organizzazione e nella gestione del sacro e la centralità degli auspicia nell’esercizio del potere del primo sovrano romano.[56]

Nel seguito della narrazione gioviana appaiono opportunamente valorizzati anche i principali provvedimenti e le più importanti istituzioni romulee, come l’introduzione delle decurie dei cavalieri, del senato costituito dai capifamiglia più anziani e delle tre tribù, opera di un fondatore di cui nel finale si ricorda l’ascesa in cielo durante un’improvvisa tempesta scatenatasi mentre passava in rassegna l’esercito. Se da un lato il riferimento all’apoteosi romulea riflette la ricezione della notizia dell’origine divina del re, presupposta dall’espressione usata dall’autore per presentare l’evento alla stregua di un ritorno alla sede naturale a cui il figlio di Marte sembrava destinato,[57] d’altro lato è interessante rilevare che l’umanista comasco non ignorava l’esistenza di una versione diversa sulla morte di Romolo. Lo ricaviamo da una lettera datata 16 febbraio 1535 e indirizzata a Francesco II Sforza, in cui Giovio, criticando la crudeltà dei cardinali, alludeva alla possibilità che essi «farebeno al Papa quello che feceron li senatori a Romulo»,[58] riferendosi con ciò alla tradizione che attribuiva ai patres la responsabilità dell’omicidio del re.[59]

Tenuto conto di quanto emerso dall’epistolario, la mancata menzione, per converso, nel passo considerato, della possibile uccisione di Romolo da parte dei senatori e l’assenza di qualunque riferimento alla lite con Remo e al conseguente fratricidio, possono essere ritenute indizio della volontà dell’autore di presentare il fondatore in chiave positiva, facendone un modello incapace di provocare una misura simile ad un tirannicidio. A riprova della lettura favorevole che connota il ritratto del primo re di Roma è interessante osservare che nel finale Giovio torna a ribadire l’identità divina di Romolo, comprovata dall’assunzione in cielo avvenuta dopo trentasette anni di regno,[60] ultimo atto di un’esistenza contrassegnata da grandi imprese e da nobili azioni sintetizzate in una sorta di climax che riassume i principali tratti del re: abile stratega e audace guerriero, fondatore della città ma anche creatore del suo ‘patrimonio culturale’ e, non ultimo, provetto augure rispettoso delle tradizioni.[61]

Per quanto concerne l’elogio di Numa, dopo un rapido accenno alla scomparsa e alla successiva divinizzazione di Romolo, adatto a presentare quasi in continuità la biografia del fondatore e quella del suo successore, Giovio si concentra sulla religiosità e il senso di giustizia, identificandole quali tratti distintivi del secondo re di Roma, in linea con la storiografia antica e in particolar modo con il modello liviano.[62] La preferenza che l’umanista comasco sembra accordare al Patavino, a differenza di quanto accaduto per l’elogio di Romolo in cui emergeva con maggiore evidenza la dipendenza dalla tradizione greca, specie quella plutarchea, appare del resto confermata dall’idea, suggerita poco più avanti, che Numa avesse ereditato la sua proverbiale integrità dalla città di provenienza, Curi, emblema del leggendario rigore dei Sabini.[63]

D’altra parte, a proposito della formazione e dell’educazione ricevuta dal sovrano, è significativa la scelta di Giovio di omettere qualsiasi accenno a un possibile legame tra Numa e la dottrina pitagorica, in contrasto con le notizie offerta tanto da Livio quanto da Dionigi e Plutarco,[64] forse allo scopo di sottolineare l’‘autoctonia’ delle virtù del re, valorizzando con ciò la capacità di Roma di costituire un modello peculiare, valido anche per l’Italia cinquecentesca.

Un ulteriore esempio della capacità dell’autore di servirsi della tradizione storiografica antica in modo non pedissequo, bensì in una prospettiva attualizzante che costituisce la chiave di volta non solo delle biografie ma dell’intero progetto del Museo, si può trarre dal giudizio riservato nel medaglione numano alla nomina di un re di provenienza extra-romana, e dunque straniero, quale decisione «di cui sarebbe stato possibile vergognarsi» ma che invece «si rivelò felice».[65] In questa direzione, non possiamo escludere che anche la critica di Giovio alla superbia e all’invidia del senato romano, incapace di eleggere autonomamente un nuovo sovrano, nonché il suo rammarico per la mancanza di continuità nella gestione del potere che impedì ai primi Romani di comprendere a fondo il concetto di libertà, alludessero polemicamente alla situazione socio-politica dell’Italia cinquecentesca.

La valorizzazione delle notizie offerte dalla tradizione storiografica antica[66] caratterizza anche i passi dell’elogio dell’umanista dedicati all’illustrazione delle gesta di Numa e della sua volontà di portare la pace presso un popolo che fino a quel momento aveva conosciuto soltanto la guerra, servendosi della religione come strumento per ri-fondare lo stato sostituendo al metus hostilis il metus deorum. In questo contesto, Giovio ricorda opportunamente la costruzione del tempio di Giano all’interno del quale fu rinchiuso lo spirito guerriero, cosicché le porte chiuse dell’edificio divennero sinonimo di pace e prosperità per l’Urbe: «in particolare fondò il tempio di Giano, nei presi dell’Argileto, e subito lo fece chiudere perché lo spirito guerriero riflettesse, non senza l’intervento della potenza divina, a come preservare la pace».[67]

D’altra parte, il ritratto numano proposto dall’umanista evidenzia che per tentare di moderare l’aggressività dei Romani infondendo loro il sentimento religioso, il secondo re di Roma non si limitò alla costruzione di un tempio bensì introdusse nuovi rituali sacri e numerosi sacerdozi, tra i quali anche quello delle Vestali.[68]

Oltre a mettere in luce la decisione del re di rinchiudere lo spirito guerriero all’interno del tempio del dio bifronte e al suo sforzo di pacificare non solo gli abitanti dell’Urbe ma anche le popolazioni vicine, Giovio non mancava di recepire la tradizione secondo cui le decisioni di Numa sarebbero state il frutto dei suoi ‘convegni notturni’ con la dea Egeria, alludendovi con una formula («voleva che si credesse»)[69] che suggerisce comunque la ripresa in chiave razionalistica della notizia. Dal passo degli Elogia ricaviamo infatti che, a giudizio dell’autore, Numa avrebbe escogitato tale soluzione affinché i cittadini si sottomettessero di buon grado al suo volere.

Sebbene una simile interpretazione dei colloqui del re sabino con la ninfa fosse già stata avanzata dagli storiografi antichi, che mettevano in discussione la veridicità del racconto rilevando come si trattasse di una pratica adottata da altri sovrani,[70] non è da escludere anche in questo caso l’influenza di Machiavelli che annoverava i colloqui notturni tra Numa ed Egeria fra gli esempi di un uso strumentale della religione come instrumentum regni indispensabile tanto nell’amministrazione delle città antiche, quanto nel governo degli Stati moderni.[71]

A favore di tale ipotesi si può tener conto delle considerazioni con cui Giovio quasi in chiusura dell’elogium di Numa, pone in evidenza gli effetti positivi che questo escamotage politico produsse sui Romani, trasformati da popolo «selvaggio e rozzo» in un popolo capace di praticare la giustizia, la fedeltà e la moderazione, oltreché indotto al rispetto della legge non più soltanto dal timore della pena, ma anche e soprattutto dalla paura degli dei.[72]

La capacità dell’umanista di recuperare la storiografia antica ritagliandosi tuttavia occasioni d’intervento personale, si può cogliere ancora in chiusura del medaglione dedicato al re sabino dove, dopo un rapido cenno alla morte, avvenuta in tarda età, dopo quarantatré anni di regno, Giovio esprime, sia pur sinteticamente, il proprio giudizio sul suo operato, riconoscendogli il merito di aver adottato una legislazione capace di moderare lo spirito guerriero dei Romani nonché quello di aver saputo trasformare la pace in uno strumento per rafforzare la neonata città.

 

 

 

4.                                                                                                                                                                                             Considerazioni conclusive

L’analisi svolta nei paragrafi precedenti permette di notare come, proseguendo la tradizione che a partire dai primi decenni del XIV secolo si era avvalsa dell’immagine di Roma arcaica per proporre o sostenere progetti in grado di riportare la Città Eterna al centro della scena politica internazionale, Paolo Giovio seppe sfruttare l’immagine dei fondatori quali emblemi di virtus[73] in modo ancor più efficace, grazie alla mediazione delle arti visive.

Mettendo in scena la storia romana, a partire dai suoi iniziatori Romolo e Numa, la sua opera contribuì a consolidarne la conoscenza in modo innovativo e originale, grazie ad un metodo compositivo ideato in modo da recepire le informazioni trasmesse dalla storiografia antica entro uno schema articolato sul piano biografico e iconografico. In questo senso, i medaglioni dedicati dall’umanista ai primi due re di Roma antica ci offrono un buon esempio della capacità della cultura della prima età moderna di trasmettere la conoscenza del passato attraverso forme letterarie diverse.

 

 

 

Azzurra Marcucci

Università di Firenze

 

 

 


 

 

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[1] Cfr. Bisello (2012: 118).

[2] Per una più ampia e dettagliata ricostruzione della biografia di Giovio si rinvia a Price Zimmermann (2001: 430-440) e a Minonzio (2006: XCIX-CVI).

[3] Come osserva Minonzio (2006: XXII-XXV), la data dell’inizio dei lavori può essere ricavata da un passo del Larius (cfr. Giovio 1984: 338) dal momento che nell’Epistolario non vi è alcun riferimento all’avvio dell’impresa, forse a causa della reticenza di Giovio a parlare di un progetto così dispendioso come si prospettava quello del Museo.

[4] Si veda Maffei (1998: 15-16) che tuttavia evidenzia opportunamente come, sebbene il principale modello di riferimento sia senza dubbio la descrizione del Laurentino in Plin., Epist., II, 17, la lettera gioviana si inserisca più in generale nel solco della tradizione classica del genere ecfrastico da cui deriva anche il topos dell’elogio della vita di campagna in contrapposizione con la corruzione che caratterizza la città.

[5] Cfr. Giovio (1958: 206).

[6] Sui possibili legami tra l’epistola a Giano Rasca e il progetto del Museo cfr. Della Torre (1985: 283-291).

[7] Come ricorda Minonzio (2006: XLIII), il dato può essere desunto da una lettera di Giovio datata 18 gennaio 1549 e indirizzata a Cosimo I de’ Medici (cfr. Giovio 1958: 132) in cui l’umanista vanta la sua ‘esperienza’ trentennale nella raccolta e nella ricerca di ritratti di uomini illustri, da cui si suppone che egli si fosse procurato i primi dipinti di armati già nel 1518-1519, sebbene la prima testimonianza relativa alla collezione sia costituita da un’epistola ad Alfonso I d’Este del 1521 nella quale Giovio lo ringrazia per avergli donato il ritratto di Leoniceno (cfr. Giovio 1958: 88-89).

[8] Anche in questo ambito il precursore si può individuare in Petrarca: per ulteriori precisazioni cfr. Donato (1985: 114).

[9] Si veda al riguardo Guerrini (1998: 147-148) che per la rappresentazione iconografica degli antichi tra XIV e XV secolo individua due tendenze: quella dei cicli degli Uomini Famosi, che si presentavano come una successione di exempla nei quali diversi personaggi dell’antichità classica erano raffigurati come statue dipinte, e quella dei Fatti (o Storie) de’ Romani, con la rappresentazione di episodi e imprese tratti dalla storia dell’Urbe. Tuttavia, già agli inizi del Cinquecento, tali modelli iniziarono a essere sostituiti da quella che Guerrini definisce la «biografia dipinta», ossia la trasposizione iconografica delle gesta di un unico eroe disposte in ordine cronologico. Tra gli esempi più noti della prima tipologia può essere senza dubbio annoverata l’Aula minor di Palazzo Vecchio per cui si rinvia a Donato (1985: 126-127) che tenta di ricostruire la disposizione dei perduti affreschi ipotizzando la presenza di ventidue figure, accompagnate da altrettanti tituli esplicativi, e sottolineando al contempo le relazioni esistenti tra il ciclo fiorentino e quello padovano del palazzo dei Carraresi.

[10] Emblematici in tal senso gli affreschi dell’Anticappella del Palazzo Pubblico di Siena realizzati tra il 1414 e il 1417 da Taddeo di Bartolo il quale, riprendendo il modello medievale dei nove prodi, inserì tra i togati e gli armati personaggi illustri dell’età repubblicana, come Cicerone e Scipione, elevati rispettivamente a simboli di giustizia e magnanimità, su cui cfr. Caciorgna (2018).

[11] A tale proposito si possono individuare due esempi esplicativi negli affreschi della cosiddetta ‘Loggia di Romolo e Remo’ di Palazzo Trinci a Foligno, realizzati da Gentile da Fabriano e dai suoi collaboratori negli stessi anni del ciclo senese, volti a mostrare la continuità tra Roma antica e la città umbra assicurata dall’origine troiana della nobile famiglia, e nelle ‘Storie di Romolo e Remo’ dipinte dai Carracci tra il 1589 e il 1590 su commissione di Lorenzo Magnani che intendeva celebrare la sua nomina a senatore presentandosi ai Bolognesi come novello Romolo. Per una più ampia trattazione sui primi cfr. Salmi (1919: 139-180), Galassi (1993: 53-72) e Casagni (1998: 223-224), quanto ai secondi si veda Stanzani (1989: 169-192).

[12] Cfr. Barocchi (1977: 2895-2896).

[13] Sull’importanza attribuita alla verità storica da Giovio, con particolare riferimento alle Historiae sui temporis, rimangono valide le osservazioni di Chabod (1967: 255-256), che sottolineava l’attendibilità dell’opera gioviana facendo leva sul confronto tra taluni passi delle Historiae e alcune lettere. Come evidenzia Price Zimmermann (2001: 434-436), va inoltre tenuto presente che la stesura delle Historiae, dedicate al periodo 1494-1547, malgrado alcune lacune dovute alla perdita o alla mancata scrittura di vari libri, fu avviata da Giovio all’indomani del suo arrivo a Roma nel 1512 e lo accompagnò per tutta la vita.

[14] È utile ricordare che nel Dialogo dell’imprese militari e amorose, composto a Firenze nel 1551 ma pubblicato postumo nel 1555, si può cogliere l’archetipo del nuovo genere letterario dell’emblematica. L’opera è la seconda e ultima tra quelle scritte in volgare da Giovio dopo il Commentario delle cose dei Turchi, di qualche decennio antecedente. La prospettiva internazionale con cui Giovio intendeva ricostruire gli eventi della storia recente, ampliando il quadro oltre i confini della storiografia italiana ed europea, per lasciare spazio anche all’Oriente turco che minacciava il vecchio continente, era già emersa tuttavia nelle Historiae: cfr. Chabod (1967: 263).

[15] Per l’uso del termine musaeum, come nota Minonzio (2006: XXXIX), va tenuta presente l’influenza esercitata da Erasmo da Rotterdam che nel Convivium religiosum aveva utilizzato la parola ‘Mouseion’ per indicare uno studiolo deputato alla lettura e allo studio dei codici, negli anni in cui l’umanista comasco era impegnato nella costruzione della villa. D’altra parte bisogna tuttavia evidenziare la novità insita nell’uso gioviano del termine che designa un luogo di studio ma anche un ambiente aperto a ospiti illustri e cittadini che potevano ammirare una collezione di ritratti non più ispirati alle vicende personali e familiari del proprietario, bensì espressione della ‘migliore’ umanità.

[16] Condivisibile la ricostruzione di Minonzio (2006: XXXIV), per cui sarebbe alquanto irrealistico pensare che l’intera collezione di ritratti fosse contenuta solo all’interno della sala delle Muse; è al contrario probabile che essi fossero distribuiti non soltanto in tutti gli altri ambienti della villa ma anche nelle diverse dimore comasche di proprietà della famiglia Giovio.

[17] Il riferimento è, ovviamente, al modello dei nove prodi; per ulteriori precisazioni sulla composizione del modulo tramite la presenza di tre eroi pagani, tre ebrei e tre cristiani cfr. Donato (1985: 98).

[18] Cfr. Giovio (2006: 9).

[19] Per tale definizione si veda ancora Chabod (1967: 259) a proposito dell’interesse gioviano per le singole personalità nelle Historiae.

[20] Per una più ampia panoramica sulla fortuna del Giovio storico e delle Historiae, dalle critiche dei contemporanei fino ai giudizi più equilibrati e ‘riabilitanti’ elaborati dagli studiosi moderni a partire dal XX secolo, si rinvia a Cochrane (1985: 19-30).

[21] A tale proposito si possono condividere le osservazioni di Cannata (2014: 76-77) che sottolinea il valore documentario dei ritratti nonché il profondo legame esistente tra ricerca storica e rappresentazione iconografica evidenziando come nella prospettiva gioviana le immagini costituissero uno strumento retorico necessario per rendere più vivida la narrazione storica e sancire la veridicità di ciò che lo storico stesso affermava.

[22] Secondo la ricostruzione di Fasola (1985: 169-180) sarebbero stati più precisamente quattrocentotredici i ritratti posseduti da Giovio.

[23] Si ricordi che il primo, all’inizio del XX secolo, a cimentarsi nell’impresa di ricostruire il ‘contenuto’ del Museo gioviano con particolare attenzione per la collezione dei ritratti è stato Müntz (1901).

[24] In merito all’edizione illustrata degli Elogia cfr. Haskell (1997: 42-43) che avanza perplessità sul metodo seguito da Stimmer e sull’esito finale del suo lavoro, evidenziando come alcune tavole sembrino copie «inaffidabili» dei dipinti originali poiché non trovano riscontro negli elogi gioviani, e come le cornici introdotte in maniera del tutto arbitraria dall’incisore finiscano per soverchiare gli effigiati a causa delle dimensioni sproporzionate e delle eccessive decorazioni, peraltro totalmente avulse dal contesto.

[25] Le tre copie dei ritratti ordinate da altrettante case regnanti europee, tra cui per esempio i Gonzaga, tra la metà del Cinquecento e i primi decenni del Seicento, oltre a quella già citata dei Medici e alle incisioni realizzate da Stimmer, testimoniano l’apprezzamento e il prestigio di cui la collezione gioviana godeva: in proposito cfr. Minonzio (2006: XLVIII-XLIX).

[26] Per ulteriori precisazioni cfr. Casini (2004: 18) che opportunamente suggerisce di riconoscere nei ritratti di uomini illustri, in cui agivano tanto l’intento celebrativo nei confronti delle virtù del personaggio quanto la volontà di offrire un documento storico ‘visivo’, la ricerca di una «fluttuante dimensione della verosimiglianza», evidenziando con tale formula come la fisionomia del volto non rivestisse sempre la medesima importanza dal momento che talvolta era l’abbigliamento, o un particolare attributo, a veicolare il messaggio di cui l’effigiato si faceva portatore. Non va inoltre sottovalutato il carattere documentario e il significato ecfrastico che gli oggetti e i dettagli ricoprono nei ritratti gioviani: cfr. Maffei (2005: 237) che tenuto conto del rilievo attribuito ad abiti, acconciature e accessori, vi coglie lo spiccato interesse dell’umanista per l’etnografia, nonché la sua tendenza a ‘concretizzare’ e rendere visibili lo status sociale e le virtù dell’effigiato.

[27] Le due formule compaiono rispettivamente nel titolo dell’editio princeps degli Elogia risalente al 1546 e nella descrizione del Museo per cui cfr. Giovio (1989: 50).

[28] Sul rapporto tra Giovio e gli storici antichi cfr. Price Zimmermann (2001: 435-436) che insiste sul metodo tucidideo adottato dall’umanista comasco ricordando come le lettere attestino le continue richieste di colloqui e informazioni indirizzate a quanti avessero preso parte alle vicende narrate nelle Historiae, senza tenere conto di alcun criterio ‘gerarchico’ o principio d’autorità, sottolineando inoltre la tendenza dello storico a vagliare le diverse testimonianze attraverso il confronto tra le varie versioni degli eventi.

[29] Cfr. Minonzio (2006: LI).

[30] Significative al riguardo le affermazioni di Giovio nella già citata lettera indirizzata a Cosimo I de’ Medici il 18 gennaio 1549, in Giovio (1958: 132-133): «[i ritratti sono] veri e fidelmente ricavati dalli originali loro, io citarò in testimonianza li ochi donde li ho cavati, acciò possi (chi di questo si vorrà chiarire) andare a vederli».

[31] Come notato da Casini (2004: 35), le raccolte numismatiche furono solo una delle molteplici fonti iconografiche di cui Giovio si servì, nella sua ottica storico-documentaria, per reperire i veri volti degli uomini illustri che con la loro effigie avrebbero popolato il Museo.

[32] Tale concezione risente evidentemente di una tradizione di lungo corso, risalente ad Aristotele e ripresa poi, nel XVI secolo, dalla scuola medica padovana di Pietro d’Abano, ambiente in cui lo stesso Giovio si era formato, secondo cui alcuni tratti fisici avrebbero trovato corrispondenza in certe qualità interiori. In merito alle possibili tangenze tra gli elogi e il Liber compilationis physiognomiae di Pietro d’Abano si rinvia a Le Thiec (1992).

[33] Significativo al riguardo che i ritratti collezionati da Giovio costituirono una delle principali fonti iconografiche di cui Giovanni Battista della Porta si servì per redigere il De humana Physiognomonia (1586), tradizionalmente considerato come il primo vero trattato di fisiognomica: cfr. Haskell (1997: 53).

[34] Sul valore documentario e il significato storico dei ritratti cfr. Maffei (2005: 228) che sottolinea le ascendenze classiche di tale prospettiva con particolare riferimento alla concezione sallustiana del ritratto (cfr. Iug., IV, 5).

[35] In proposito, oltre a Maffei (1998: 22-23), cfr. Faedo (1985: 7) secondo cui il tentativo degli artisti rinascimentali di trasporre l’ecfrasis in una forma pittorica va ricondotto nel solco della tradizione dell’ut pictura poësis inaugurata da Orazio. D’altro lato, nella concezione del ruolo del pittore e dello scrittore, o per meglio dire del rapporto tra pittura e scrittura, propria dell’umanista comasco si può cogliere un’influenza delle teorie elaborate da Cic, Pro Archia, 30, secondo cui le imagines sarebbero stati meri simulacri dei corpi incapaci di tramandare ai posteri l’importanza del pensiero e delle azioni degli uomini, una funzione educativa riconosciuta invece alle effigies realizzate da quei summis ingeniis da identificare con i letterati: in proposito cfr. Kliemann (1985: 204).

[36] Cfr. Giovio (1959: 129-131).

[37] La stessa idea è presente anche nei versi di Onorio Fascitelli premessi al testo degli Elogia nell’editio princeps del 1546, come può leggersi in Giovio (2006: 1): «Giovio permette ai vivi di non temere le tombe del Lete, / ai morti fa vivere una vita perenne».

[38] Cfr. Giovio (2006: 19-20).

[39] Un’ulteriore conferma dell’influenza petrarchesca sull’opera dell’umanista si può cogliere nella dedica a Ottavio Farnese che precede Gli elogi dei letterati illustri, dove si definisce vano, sterile il piacere ottenuto attraverso gli occhi, qualora ci si limiti a guardare i ritratti, a differenza dell’utilità che può essere ricavata dalla lettura delle gesta e delle virtù degli effigiati, sostenendo di fatto la superiorità della parola sull’immagine: cfr. Giovio (2006: 5-6).

[40] Cfr. Familiares, VI, 4, 11; per il motivo oraziano cfr. Hor., Ep., II, 1, 248-250.

[41] Cfr. Donato (1985: 120-121), per cui non va inoltre escluso che Petrarca fosse a conoscenza della pratica, diffusa presso gli antichi, di abbinare un testo alle immagini, per la quale richiama gli esempi offerti da Orazio, Serm., I, 6, 17 e da Plinio il Vecchio, Nat. his., XXXIV, 17.

[42] Circa l’influenza esercitata delle Vite plutarchee sull’arte quattrocentesca e in particolare sui ‘Cicli di Uomini Famosi’, di cui la collezione di ritratti gioviana può essere considerata un’evoluzione, si veda Guerrini (1998: 141) che suggerisce di identificare nel biografo greco un punto di riferimento imprescindibile per l’intero progetto, alla luce della stretta correlazione tra πράξεις e ρεταί che caratterizza i dipinti e i ritratti.

[43] Cfr. Caruso (1999: 17). In merito all’ipotesi di Varrone quale possibile modello degli Elogia gioviani si veda anche Maffei (2005: 230).

[44] Cfr. Giovio (1958: 174-179).

[45] Cfr. Maffei (2005: 236-237).

[46] Per tale ipotesi cfr. Minonzio (2006: 426, nota 1).

[47] Come sottolineava Ogilvie (1965: 88), sulle orme di Dumézil (1958), la contrapposizione tra un re guerriero e un re sacerdote può essere ricondotta più in generale all’ideologia indoeuropea e alla teoria della tripartizione funzionale, sicché la dicotomia tra Romolo e Numa costituisce un topos già nella storiografia antica: ne offre un esempio Livio (I, 19, 1) che presenta il sovrano sabino come un secondo fondatore.

[48] Sulla fonte del ritratto di Romolo presente nel Museo comasco offre notizie lo stesso Giovio, precisando nella medesima lettera indirizzata a Cosimo I de’ Medici di essersi servito dell’effigie del fondatore collocata sopra la porta della residenza di Paolo Gallo a Roma e dell’iconografia numismatica: cfr. Giovio (1958: 132). A riscontro di tale indicazione si veda Aldrovandi (1562: 167): «In casa di Messer Paulo Gallo, presso a Palagio di San Giorgio. Prima che s’entri in casa, si vede su la porta una bella testa di Romolo, che edificò Roma».

[49] Cfr. Giovio (2006: 425), dove, a proposito dell’origine divina di Romolo, va notato l’uso della formula «così si diceva».

[50] Il riferimento è alla biografia di Romolo che apre il De viris illustribus: cfr. Petrarca (2006: 6-17).

[51] Significative in questo senso le critiche espresse dall’umanista nelle Historiae contro l’incapacità militare dei condottieri e principi italiani, su cui cfr. Chabod (1967: 257).

[52] Cfr. Dion. Hal., Ant. rom., II, 3, 4.

[53] Cfr. Giovio (2006: 425).

[54] Cfr. Giovio (2006: 428-429).

[55] La rappresentazione di Numa come artefice di un ‘sistema religioso’ che avrebbe avuto risvolti anche in ambito civile, offerta da Machiavelli, è debitrice della lezione liviana: cfr. Mastrorosa (2018: 127-137).

[56] Per altre precisazioni al riguardo cfr. Mastrorosa (2008: 61-71) che sottolinea l’intenzione del giurista di valorizzare l’importanza, e in un certo senso, la ‘modernità’ dell’intuizione di Romolo, per primo capace di comprendere l’essenzialità di un’attenta gestione della sfera del sacro in rapporto alla coesione e all’unità dello stato, anticipando di fatto la linea di Numa.

[57] Cfr. Giovio (2006: 425), dove va notato l’uso della formula «tornò tra gli dèi del cielo» a proposito dell’assunzione in cielo del fondatore.

[58] Cfr. Giovio (1958: 146).

[59] Per tale versione cfr. Dion. Hal., Ant. rom., II, 56, 4; Liv., I, 16, 4 e Plut., Rom., XXVII.

[60] Il particolare è con ogni probabilità desunto da Dion. Hal., Ant. rom., II, 56, 7.

[61] Cfr. Giovio (2006: 425-426): «dopo aver vinto i nemici, aver celebrato il trionfo e avere dedicato dei templi a Giove Feretrio e Statore (non prima di aver tratto i voti in Campidoglio, secondo il rito)».

[62] L’incipit dell’elogio di Giovio (1575: 3) riprende da vicino il testo di Liv., I, 18, 1, rispetto a cui va tuttavia notata la scelta dell’umanista di invertire l’ordine dei termini che identificano le virtù del sovrano, il senso della giustizia e la religiosità, a vantaggio della seconda, ulteriormente posta in evidenza mediante l’aggiunta del rafforzativo gravitatis. In questa modifica, efficace a porre in primo piano il ruolo della religione nell’esercizio del potere, si può cogliere un riflesso della concezione di Roma, Città Santa e sede del Papato, quale erede dell’Urbe antica, diffusa tra gli Umanisti a partire dal XV secolo e ancora in auge all’epoca di Giovio.

[63] Cfr. Liv., I, 18, 4, con le considerazioni di Turner (2016: 5) su Numa quale perfetta incarnazione dello stereotipo sabino della prisca virtus, manifesta anche nell’aspetto di uomo maturo, irsuto e a tratti quasi tramandato che il re sacerdote assume in alcuni denari risalenti al 97 e al 49 a.C. su cui cfr. Farney (2007). D’altra parte, una simile immagine non sembra discostarsi molto da quella ricavabile dall’incisione di Stimmer che compare sopra l’elogium di Numa nell’edizione illustrata dell’opera gioviana pubblicata nel 1575.

[64] Tutti e tre gli storiografi riportano infatti la tradizione, assai diffusa presso gli antichi, secondo cui Numa sarebbe entrato in contatto con i dettami della dottrina pitagorica, salvo poi contestarne la veridicità sul piano cronologico dimostrando che il sovrano sabino visse diverse generazioni prima del filosofo greco: cfr. Dion. Hal., Ant. rom., II, 59; Liv., I, 19, 1-5 e Plut., Num., VIII, 5-9.

[65] Cfr. Giovio (2006: 428).

[66] Cfr. Dion. Hal., Ant. rom., II, 62-76; Liv., I, 19-21 e Plut., Num., VIII-XVII; XX.

[67] Cfr. Giovio (2006: 428).

[68] Tale dettaglio è con molta probabilità desunto da Plut., Num., XI, 1, che attribuisce a Numa la paternità di tale sacerdozio, a differenza di Dionigi che retrodatava invece l’esistenza delle Vestali all’epoca romulea (cfr. Dion. Hal., Ant. rom., I, 76, 3). Sulla presenza delle sacerdotesse vergini nei racconti inerenti al fondatore di Roma si veda Carandini (2006: 263-264).

[69] Cfr. Giovio (2006: 428).

[70] Cfr. Dion. Hal., Ant. rom., 61; Liv., I, 19, 5-6; Plut., Num., IV, che citano gli esempi di Licurgo e Minosse, rispettivamente ispirati, secondo la leggenda, da Zeus e Apollo.

[71] Per utili approfondimenti sull’interpretazione dell’operato di Numa fornita da Machiavelli nei Discorsi si veda Varotti (1996).

[72] Cfr. Giovio (2006: 429).

[73] Come osserva Varotti (1996: 122), il fondatore rappresenta la massima espressione della virtus poiché, quasi come un demiurgo, è capace di «dar forma alla materia».