IMMACOLATA
ERAMO
(Università
di Bari)
RETORICA MILITARE FRA TRADIZIONE
PROTRETTICA E PENSIERO STRATEGICO
Military Rhetoric between Protreptic Tradition
and Strategic Thought
ABSTRACT: Rhetorica militaris, the logikon
meros of Syrianus Magister’s compendium, is an original, unique stage of
the history of the protreptic genre. While the first signs of the genre can be
seen already in Homer’s Iliad,
Thucydides’ Histories are in this
field an unsurpassed example for later military historians, and particularly
for Procopius. The rhetorical structure of the Rhetorica militaris, organized upon the theories attributed to
Hermogenes of Tarsus, combines protreptic themes with strategic thought, which
in the Byzantine age assumes a mature character. According to this theory, in
times of war relational and emotional issues can be more important than battles
with weapons.
KEY
WORDS:
Byzantine strategy, Harangues, Iliad,
Procopius, Rhetorica militaris,
Syrianus Magister, Thucydides.
SINTESI: La Rhetorica
militaris, il logikon meros del
compendio di Siriano Magister, si pone come tappa tanto originale quanto
isolata del processo evolutivo del genere protrettico. Se i prodromi sono ravvisabili
già nell’Iliade omerica, le Storie tucididee rappresentano anche per
tale ambito un esempio insuperato per gli storici militari di età successive,
tra questi soprattutto Procopio. L’opuscolo, il cui impianto è esemplato sulle
teorie esposte nel corpus attribuito
ad Ermogene di Tarso, coniuga i motivi protrettici con una riflessione
strategica che nell’età bizantina assume una fisionomia matura: in guerra le
istanze relazionali ed emozionali possono essere più importanti dello scontro
in armi.
PAROLE CHIAVE: Discorsi protrettici, Iliade, Procopio, Rhetorica
militaris, strategia bizantina, Siriano Magister, Tucidide.
Fecha de Recepción: 15 Junio de de 2010.
Fecha de Aceptación: 11 de Septiembre de 2010.
NELLO IONE (540d-e),
Socrate cita tra le qualità essenziali per lo stratego il saldo possesso della
parola, utile per infondere coraggio nei soldati. Anzi la considera virtù tanto
cruciale da poter equiparare ad uno stratego qualunque rapsodo. Se è
impensabile intraprendere una spedizione militare senza generali, altrettanto
insensato sarà scegliere un generale che non abbia familiarità con la facoltà
dell’eloquio, riflette nei suoi precetti sul comando Onasandro (Strat. 1.16). Ne è esempio illustre
l’artefice della vittoria risolutiva sui Persiani, Temistocle, considerato il
terzo grande oratore di Atene, dopo Solone e Clistene.[1] La perizia oratoria
è proiezione delle capacità strategiche con cui il generale conduce il
conflitto: pianifica tattiche come predispone parole, le quali fanno parte, anch’esse,
della “panoplia” di un bravo comandante.[2]
Per questo, sottolinea Fenice, ha avuto il compito di educare Achille, a che il
suo allievo sia ad un tempo “buon parlatore e operatore di opere”,[3]
e non a caso Agamennone esprime lodi per i due Aiaci, in quanto strateghi abili
a “ben incitare le truppe in armi al combattimento”.[4]
Omero
esprime giudizi lusinghieri sulla particolare facondia dei combattenti a Troia:
è un piacere ascoltare Nestore, “dalla dolce parola e dalla lingua più dolce
del miele” (Il. 1.248-249), mentre
Menelao si esprime in modo sintetico, ma vibrato (Il. 3.213-215). Il migliore tra tutti è, ovviamente, Odisseo, il
quale “quando voce sonora mandava fuori dal petto, parole simili ai fiocchi di
neve d’inverno, allora nessun altro mortale avrebbe sfidato Odisseo”.[5]
Anche l’abietto Tersite è arguto oratore, benché “lingua confusa” (Il. 2.246). Il richiamo alle virtù
oratorie degli eroi omerici non assume mero valore esornativo; difatti le
parole di incoraggiamento pronunciate da ciascuno stratego sortiscono gli
effetti voluti: “così dicendo destò la furia e il coraggio d’ognuno”.[6]
Sul campo di Troia si manifestano i prodromi di una dinamica relazionale che il
pensiero militare codificherà nel I secolo d.C., nello Strategikos di Onasandro: la parola è utile non soltanto per
alleviare il dolore di una qualche sventura – in questo ben più preziosa di
medici e farmaci, che curano soltanto mali fisici ed evidenti (Strat. 1.14-15) –, ma anche per creare
la necessaria complicità e unità di intenti, soprattutto all’approssimarsi del
conflitto; l’incitamento del generale rende ciascun soldato ardimentoso allo
scontro e pronto a correre ogni rischio. Per questo a Canne Annibale esalta in
maniera incondizionata i pregi dell’allocuzione protrettica proprio nel momento
in cui, con una efficace preterizione, ne mette in evidenza i limiti o
addirittura l’inconsistenza per truppe che, ormai, hanno tale esperienza del
nemico da poter assumere proprio da questa argomenti sufficienti per scendere
in campo (Polyb. 3.111.5-7). I destinatari di una demegoria protrettica sono
uomini adusi alle fatiche e ai disagi di guerra, che già hanno affrontato
nemici e pericoli. L’allocuzione parenetica rappresenta un elemento ulteriore,
di diversa tipologia rispetto all’armamentario propriamente bellico, a fronte
di una situazione del tutto eccezionale e grave,[7]
come l’inizio dello scontro, nella quale vengono messi alla prova non tanto la
forza o l’abilità nelle armi, quanto soprattutto il valore di ciascuno e la
tenuta psicologica dell’esercito nel complesso. Per tale motivo l’arringa non
si configura come un insieme di parole di circostanza, che non hanno alcun
utile se non allietare l’uditorio,[8]
ma serve ad infondere coraggio in una situazione difficile, “per quelle facili
non ve ne sarebbe alcun bisogno”: sarebbe infatti un’offesa, indice di
pochezza, ricorrere ad esortazioni per azioni non rischiose né eccezionali,
perché quelle ciascuno sa compierle da sé, considera Tito rivolgendosi alle
truppe prima di affrontare i riottosi giudei.[9]
D’altro canto, l’allocuzione protrettica mette alla prova le capacità
psicologiche e psicagogiche del generale, che ricorre alle risorse della parola
soltanto se profondamente convinto del loro felice esito da una parte, della
valentia e del coraggio dei soldati dall’altra.
Ma, “for what
counts in the Homeric speaker is not eloquence, or at least not eloquence
alone, but the content of his speech. Behind the words, the µῦθοι, the audience senses the speaker’s superior understanding
and insight, his νοῦς. There is certainly
in Homer no discidium linguae atque
cordis”.[10]
A Omero
risalgono quei motivi protrettici che la tradizione ha consacrato come propri
del genere e puntelli infallibili per la parenesi al coraggio.[11]
Quintiliano dava inizio alla sua dissertazione sui generi letterari proprio
partendo da Omero, anche per il genere retorico πρῶτος εὑρετής, benché di una forma
non ancora elaborata o retoricamente articolata.[12]
Effettivamente
l’eredità più durevole che i discorsi degli strateghi omerici hanno lasciato
non è la struttura retorica, come anche la capacità suasoria degli eroi
locutori, quanto gli argomenti, i µῦθοι: la consapevolezza che la divinità operi in proprio
favore,[13]
l’affermazione della inderogabilità del combattimento, a fronte del disonore rappresentato
dalla fuga,[14]
cui tuttavia sarà possibile fare ricorso in una situazione di incertezza,[15]
il richiamo alle gesta degli antenati,[16]
l’importanza di difendere la propria patria, e con essa famiglia e beni,[17]
la stigmatizzazione di codardia e mollezza,[18]
il ricordo di passate vittorie,[19]
il valore della gloria e delle ricompense per i vincitori.[20]
È
significativo un dato recentemente messo in luce dagli studi di antropologia
comparata, secondo il quale il motivo protrettico principale di ogni arringa, l’esortazione
a dar prova di coraggio e a non essere vili, è comune a più tradizioni
culturali. Per citare solo alcuni esempi,[21]
l’esortazione di Ettore a rinnovare la memoria del proprio coraggio (Il. 6.112) è presente anche nel Beowulf e in un antico inno babilonese,
oppure il rimbrotto di Agamennone agli Achei per la loro codardia trova un
parallelo nell’epica sassone e nella versione latina del perduto Biarkamál, dove l’eroe danese Hjalti
rianima i compagni inerti a resistere agli attacchi di Hjorvard. Nell’epica
indiana si rinviene una corrispondenza con l’esortazione a dare prova di valore
pronunciata da Sarpedone in Il.
16.422 o la domanda retorica che Agamennone rivolge ai suoi soldati (τίφθ'
οὕτως ἔστητε τεθηπότες ἠΰτε νεβροί;) in Il. 4.243.
Se, poi,
vogliamo guardare all’ambito storiografico, l’introduzione di parole
direttamente pronunciate dai protagonisti non inficia, secondo i criteri di
veridicità che gli autori applicavano alle proprie opere, la qualità della
ricerca storica in sé, va invece ricondotta alla volontà di rendere efficace la
narrazione, secondo il principio, che affonda le radici nell’epos omerico ma al quale Tucidide
attribuisce valore programmatico, secondo cui λόγοι e πράξεις sostanziano,
insieme, l’essenza dei πραχθέντα. Le arringhe dei
generali prima dello scontro sono anche occasione per conoscere situazioni,
piani, abilità e caratteri legati alla strategia del comando.[22]
In definitiva, i discorsi erano utili allo storico per rendere il lettore
spettatore dei fatti narrati, abilità che già Plutarco riconosceva a Tucidide.[23]
Anche in tale materia Tucidide si rivela un innovatore rispetto alla tradizione
dei logografi che lo hanno preceduto: se non ha potuto prendere appunti ad ogni
discorso pronunciato e annotarne il resoconto, comunque egli assicura di
essersi attenuto alla συµπάσα γνώµη delle parole
pronunciate, riportando ὡς δ' ἂν ἐδόκουν ἐµοὶ ἕκαστοι περὶ τῶν αἰεὶ παρόντων τὰ δέοντα µάλιστ' εἰπεῖν (1.22.1), ben
consapevole che “i discorsi racchiudono […] il significato, o i significati
contrastanti, che una data situazione storica esprime, e di cui si fanno
veicolo i protagonisti”.[24]
Stratego egli stesso, verosimilmente talvolta uditore delle allocuzioni
pronunciate o comunque a contatto diretto con i protagonisti di quegli eventi,[25]
è probabile che Tucidide abbia trasformato anche brevi incitamenti, apoftegmi e
incoraggiamenti in orazioni articolate, “nello sforzo di rispecchiare, pur
nella rielaborazione, le parole effettivamente pronunciate”.[26]
Per esempio a Pilo Demostene rivolge parole di incitamento al manipolo
ristretto di soldati che si è scelto per l’ardita impresa: sta a loro
slanciarsi nello scontro con coraggio, senza pensare ai pericoli, perché una
situazione cogente, come quella che si va profilando, non dà spazio ai
ragionamenti; una valutazione ben ponderata degli eventi spetta a lui in quanto
stratego, e proprio in base a questa può rassicurarli sui vantaggi, prima di
tutto il difficile accesso al luogo, ma anche la dinamica dello sbarco, nel
corso del quale i nemici non potranno fare affidamento sulla superiorità
numerica (Thuc. 4.10). Nel campo spartano, Brasida dà prova delle migliori
capacità suasorie durante la campagna di Amfipoli. All’esercito schierato degli
ἄνδρες Πελοποννήσιοι, di diversa stirpe
ma a cui si rivolge richiamando la comune origine dorica,[27]
più che i motivi topici della parenesi, ai quali riserva l’allocuzione finale
(volontà, senso dell’onore, obbedienza ai capi, consapevolezza dell’importanza
della posta in gioco, sollecitudine del suo comando), Brasida vuole soprattutto
esporre la dinamica dello scontro che si va ad affrontare, sostanzialmente un
attacco a sorpresa, uno dei κλέµµατα che procura la
gloria più bella, “perché è con questi che si inganna il nemico e si giova agli
amici” (5.9). A Delio Ippocrate rivolge ai soldati una παραίνεσις volutamente breve,
ma ugualmente efficace proprio per il valore degli uditori: gli basta ricordare
il motivo per cui si combatte in terra straniera, la libertà della patria e le
gesta degli antenati, che già occuparono quei territori (4.95). Ippocrate
interrompe l’incitamento a metà, all’apparire delle truppe beote giù dalla
collina, anch’esse brevemente esortate da Pagonda καὶ ἐνταῦθα (4.96.1). Costui
aveva già incoraggiato i Beoti alla battaglia, contro il parere degli altri
dieci colleghi,[28]
e in un modo alquanto atipico, ovvero προσκαλῶν ἑκάστους κατὰ λόχους, ὅπως µὴ ἀθρόοι ἐκλίποιεν τὰ ὅπλα (4.91):[29]
è un errore starsene inattivi alla mercé delle decisioni del nemico, che assale
non per difendere quanto è proprio ma per conquistare; al contrario bisogna
portare la guerra al di fuori del confine, traendo ammaestramento dalle
conquiste fatte in passato, essere memori delle antiche imprese e all’altezza
delle virtù dei padri, confidando nell’aiuto degli dèi, i cui santuari sono
stati profanati dai nemici (4.92). Anche i discorsi contrapposti di Nicia ed
Alcibiade alla vigilia della spedizione in Sicilia, benché siano stricto sensu demegorie assembleari,
contengono elementi propri delle arringhe protrettiche. Alla parte informativa
vera e propria – la διδαχή alla massa di cui entrambi si fanno
interpreti – segue l’esortazione per l’uno ad essere lungimiranti, ad avere
caro l’interesse della patria e a non imbarcarsi in un’impresa rischiosa e
incerta, per l’altro ad estendere l’impero con imprese pari a quelle compiute
dai padri e ad acquisire quell’esperienza che solo l’attività assicura (6.9-10,
17-18).[30]
Il caposaldo oratorio della perorazione di Alcibiade, il riferimento alle debolezze
nemiche unito alla consapevolezza dei propri vantaggi, ricorre nel discorso di
Formione alla flotta ateniese vittoriosa nel golfo di Patre. Nonostante il
recente successo l’equipaggio è spaventato: numerose sono le imbarcazioni
avversarie schierate. Per prima cosa Formione dissipa tutti i timori,
dimostrando come la superiorità numerica sia in realtà rivelatrice di una
condizione di incertezza e di svantaggio. Quanto poi al proverbiale coraggio
del nemico, esso si è espresso sempre in combattimenti di terra, dal momento
che “nel campo in cui ciascuno è più esperto lì diventa anche più audace”:
l’esperienza non solo compensa le qualità innate, ma le sviluppa. Il monito e
l’incoraggiamento finale sarà pertanto mantenere ordine e silenzio, obbedire ai
comandanti e rinnovare i fasti delle passate vittorie (2.89). Il valore
dell’esperienza è ancora nelle parole di uno stratego ateniese, Nicia, a
Siracusa nel 415, per un’esortazione volutamente breve: la macchina da guerra è
già di per sé sufficiente a infondere coraggio, inoltre evidenti sono le
difficoltà dei nemici, i quali sono numerosi ma disorganizzati, coraggiosi ma
inesperti (6.68). Questa volta, a differenza dei Peloponnesiaci del 429 che non
hanno indugiato a ingaggiare la battaglia navale, i Sicelioti valutano più
attentamente la situazione. È Ermocrate che analizza le cause della precedente
sconfitta: non la mancanza di coraggio, ma l’assenza di ordine e disciplina,
l’aver combattuto, da ἰδιῶται, contro χειροτέχναι. Per rendere le
truppe all’altezza degli avversari sarà necessario ridurre il numero dei
generali, scegliendone tuttavia di ἔµπειροι cui affidare pieni
poteri, e sottoporre i soldati ad un rigoroso programma di addestramento
(6.72).
A
Tucidide guarda “la migliore storia militare bizantina”:[31]
prima che storico, Procopio fu per anni, al seguito di Belisario,[32]
testimone ed esperto conoscitore di guerra,[33]
interprete di quella consapevolezza, ormai diffusa nella pratica del tempo,
secondo la quale la forza e il numero possono essere utilizzati solo come
argomenti suasorii, laddove il successo in guerra dipende da altri fattori,
dalla disciplina, dall’esperienza, dalla conoscenza dell’avversario e dai
rapporti diplomatici[34]
– sì da poter addirittura evitare la prova delle armi o dimensionarne la
portata – finanche il ricorso a stratagemmi e astuzie, la superiorità
tecnologica, infine la fortuna, che si accompagna all’abilità del generale.[35]
Alle parole del re dei Saraceni Alamundaro egli affida considerazioni generali
su come affrontare la guerra: non bisogna avere fiducia nella mutevolezza della
sorte o al contrario nei passati successi; per questo gli uomini che sanno di
non potersi fidare della fortuna non si gettano in maniera sconsiderata nella
mischia, anche se ritengono di essere superiori al nemico, ma cercano di
ingannare gli avversari con astuzie e stratagemmi (ἀπάτῃ τε καὶ µηχαναῖς), in quanto l’uso
delle armi da solo non dà garanzia di vittoria (Proc. Pers. 1.17.32-33). “These words
described the reality of warfare in the age of Justinian. It was a warfare of
patience, timing, cleverness, and endless maneuvring. Glory and zeal in battle
were not regarded as essential qualities for success in war, which was
difficult and serious business”.[36]
Come Tucidide, che sempre ha a modello, Procopio delinea un quadro
assolutamente illuminante e fededegno della realtà militare del suo tempo: “the
reader of his Wars does acquire a
much better understanding of sixth-century warfare and the mentality of
military decision makers and subordinates than one can find in other Byzantine
sources on Byzantine military history of the sixth or later centuries. That is
an achievement. Far less certain is whether his careful crafting of military
history had any effect whatever on the quality of subsequent military
decisionmaking in the Byzantine Empire”.[37]
Emulo di
Tucidide anche nell’elaborazione dei numerosi discorsi che innervano la trama
narrativa dei Bella e fedele ai
principii metodologici esposti dal Maestro, Procopio riesce a realizzare un opus oratorium ad alto livello di
elaborazione stilistica (che gli valse l’appellativo di ῥήτωρ καὶ σοφιστής)[38]
e con variazione di registri, dalla disperazione[39]
alla ironia[40]
al pathos. Nelle esortazioni che
precedono le battaglie – gran parte delle quali strutturate a coppia – gli
argomenti protrettici mostrano il risultato maturo di un processo di
ripetizione e di cristallizzazione, la cui consapevolezza Procopio attribuisce
agli stessi locutori come ai fruitori. Ne è inevitabile conseguenza la
ricorrente e insistita reticenza, che tuttavia finisce per affermare il valore
del discorso protrettico proprio nel momento in cui annuncia di svilirne
significato ed esiti: il mirrane Peroze esordisce ammettendo che il suo
esercito dia prova di coraggio non in quanto spronato dal generale, ma perché
avvezzo ai pericoli (Proc. Pers.
1.14.13); così come una παραίνεσις non è necessaria
alla εὐψυχία, quando già la
necessità induce ad essere coraggiosi, nelle parole di Gubaze re dei Lazi prima
della battaglia al fiume Hippis, parole che tuttavia costituiscono l’esordio di
un’esortazione protrettica (Goth.
8.8.6). Prima della battaglia contro Totila, Narsete lusinga l’uditorio
mettendone in evidenza la pratica consumata di guerra, che non necessita di
parole: i discorsi sono utili alle reclute, non ai Romani (Goth. 8.30.1).[41]
L’esempio
di Procopio dimostra che anche in materia di discorsi “Tucidide legiferò” (εὖ µάλα τοῦτ' ἐνοµοθέτησεν: Luc. Hist.Conscr. 42), tanto da essere
considerato il πρῶτος εὑρετής di discorsi
elaborati secondo principii retorici.[42]
In polemica con il metodo storiografico di Timeo, che avrebbe inserito nella
sua opera discorsi fittizi alla maniera delle scuole di retorica soltanto per
fare sfoggio di eloquenza, Polibio opera una chiara distinzione dei λόγοι che possono essere utilizzati in un’opera storica
(12.25a.3 e 25i.3): δηµηγορίαι, che in 12.25i.3
definisce συµβουλευτικοὶ λόγοι, richiamandosi al
genere deliberativo proprio della tradizione aristotelica (Arist. Rh. 1358b), rivolti ad un’assemblea (sia
essa una βουλή sia anche un
generico δῆµος), παρακλητικοὶ λόγοι (o παρακλήσεις), arringhe dei
generali ai soldati prima di una battaglia, e πρεσβευτικοὶ λόγοι, discorsi degli
ambasciatori.[43]
Sulla scia di Tucidide, Polibio aggiunge ai criteri della ἀλήθεια e del καιρόν quello del πρέπον. Guardando sempre a
Timeo come riferimento polemico, ritiene la pratica e l’esperienza sul campo le
qualità che servono allo storico per esporre in ogni circostanza tutti i
possibili argomenti; se facile risulta ῥησικοπεῖν nei libri, difficile
è investigare le ragioni e le cause di un evento, anche quello in occasione del
quale il discorso viene pronunciato. Nella stessa maniera inserire brevi
discorsi ma in modo confacente al καιρόν è possibile a pochi,
affastellare il racconto di parole magari anche efficaci ma inutili è cosa alla
portata di tutti (12.25i.5-9). E ancora, riflettendo in sede programmatica
sulla funzione e sull’utilità dei discorsi in una narrazione storica, Polibio
riafferma la rinuncia a elementi puramente esornativi, inutili alla
comprensione degli eventi, a favore della scelta di riportare, dopo accurata
indagine, quanto si ritiene più importante e in grado di determinare maggiori
conseguenze (36.1).
Il
criterio non dell’ἀλήθεια ma esclusivamente
del πρέπον Dionigi di
Alicarnasso ritiene debba regolare la presenza e i caratteri dei discorsi da
inserire nelle opere di storia; sulla base di tale virtus elocutionis, per la raffigurazione dei caratteri e
l’aderenza alla forma espressiva dei personaggi considera Erodoto il migliore,
anche rispetto a Tucidide,[44]
a suo giudizio uso ad introdurre discorsi superflui o ad ometterne di
necessari, appunto non “secondo quanto convenga”.[45]
Alle demegorie protrettiche, tuttavia, egli dedica un cenno cursorio,
invocandole come elemento di confronto per l’ambito atletico e agonistico,[46]
secondo un procedimento non ignoto al genere retorico.[47]
Nel
settembre del 413 Nicia ha già esperito ogni tentativo per ridare coraggio e fiducia alle truppe ateniesi ormai stremate
e in preda al più profondo scoramento. Si rivolge ai trierarchi, invocando
quegli argomenti a cui gli uomini “fanno sempre ricorso senza curarsi di aver
l’aria di ripetere vecchi discorsi triti
e ritriti, sempre simili per ogni occasione ma che pure vengono gridati a
gran voce perché si ritiene che siano effettivamente utili nel momento in cui
la paura regna sovrana” (Thuc. 7.69.2, trad. A. Corcella).[48]
Come i µῦθοι della parenesi
omerica, così gli argomenti cui Nicia ricorre quale ultima ratio, quell’ ἀρχαιολογεῖν che costituisce il
repertorio dei motivi “assolutamente necessari”, sempre uguali a se stessi e
perciò validi in ogni occasione (ὑπὲρ ἁπάντων παραπλήσια), assumono
codificazione retorica soltanto nell’età bizantina, nel λογικὸν µέρος del compendio
attribuito a Siriano Magister, ovvero
nell’opuscolo tràdito come ∆ηµηγορίαι προτρεπτικαὶ πρὸς ἀνδρείαν ἐκ διαφόρων ἀφορµῶν λαµβάνουσαι τὰς ὑποθέσεις, ma chiamato Rhetorica militaris a seguito della
prima e finora unica edizione curata da Hermann Köchly.[49]
Allo
stesso autore della Rhetorica militaris la
tradizione degli studi ascrive la composizione del De re strategica,[50]
scritto tràdito adespoto e acefalo che, dopo una prima parte dedicata alla πολιτεία e alle sue parti e
un excursus su tecniche di difesa da
assedi e costruzioni di città, tratta specificamente di tattica delle truppe di
terra. Alla mano di Siriano è poi attribuito lo scritto di tattica navale edito
da Karl Konrad Müller nel 1882 con il titolo De proelio navali.[51]
Nel 1937 Alphonse Dain rese nota la lettura dell’impronta, lasciata sul verso del f. 332 dell’Ambrosianus B 119 sup. dal recto di un foglio ora perduto, della inscriptio di questo opuscolo: ΝΑΥΜΑΧΙΑΙ ΣΥΡΙΑΝΟΥ ΜΑΓΙΣΤΡΟΥ.[52]
Tale notizia, associata all’ipotesi della comune paternità dei tre scritti,
variamente esposta ed articolata fin dai tempi di Lukas Holste,[53]
induce ad attribuire a Siriano non solo le Ναυµαχίαι, ma anche il De re strategica e la Rhetorica militaris. Non saremmo, poi,
molto lontani dal vero nell’identificare costui nell’autore che Costantino VII
raccomandava al figlio Romano di portare con sé durante le campagne militari
nell’ Ὅσα δεῖ γίνεσθαι τοῦ µεγάλου καὶ ὑψηλοῦ βασιλέως τῶν Ῥωµαίων µέλλοντος φοσσατεῦσαι[54] e il cui nome
compare tra le fonti dei Tactica di
Niceforo Urano nella inscriptio del Constantinopolitanus gr. 36,[55]
oltre che nella lista in colonna di nomi, in corrispondenza di ἀρχαίαις καὶ δὴ καὶ ταῖς νεωτέραις στρατηγικαῖς τε καὶ τακτικαῖς µεθόδοις (proe. 5), leggibile a margine di cinque manoscritti della
recensione laurenziana delle Tacticae
constitutiones di Leone
VI (᾿Αρριανοῦ, ᾿Αιλιανοῦ, Πέλοπος, ᾿Ονησάνδρου, Μενᾶ, Πολυαίνου, Συριανοῦ, Πλουτάρχου).
La Rhetorica militaris si configura come un
manuale di δηµηγορική τέχνη e
al tempo stesso un vademecum ad usum
strategorum. In 58 capitoli l’opera espone le caratteristiche delle singole
parti che costituiscono una demegoria protrettica (προοίµιον, προδιήγησις, προκατασκευή),
le loro articolazioni (πρόβληµα, προβολή, κεφάλαιον), i
modi in cui queste si strutturano, ovvero i motivi generali che ispirano
l’esposizione (νόµιµον, δίκαιον, συµφέρον, δυνατόν, ἔνδοξον, ἐκβησόµενον, ma anche κεφάλαια πλαστά),
l’argomentazione, con i suoi fondamenti (πρᾶγµα, πρόσωπον, χρόνος, τόπος, ἀιτία), e
l’esposizione (ἐργασία),
insieme con gli esempi utilizzati a supporto, a confronto, a spiegazione,
infine i caratteri della parte conclusiva (ἐπίλογος),
dell’epinicio (ἐπινίκιος),
del discorso consolatorio (παραµυθητικός) o
di rimprovero (τραχύς).
Dal
punto di vista retorico, l’opuscolo è erede di quella tradizione che studia non
le parti del discorso, ma le loro qualità, rinvenendo il proprio modello nella Τέχνη ῥητορική attribuita ad
Ermogene di Tarso:[56]
il Retore della dottrina degli status,
che aveva compiuto un’opera sistematica di sintesi e organizzazione delle
teorie dei suoi predecessori, primo fra tutti Ermagora di Temno, rappresenta il
punto di riferimento per la griglia strutturale e il substrato concettuale
dell’opera di Siriano. Per due volte, ad onta del silenzio che riserva ad altre
fonti da cui trae ispirazione e materia, tra cui soprattutto gli scrittori di
tattica e poliorcetica, egli fa esplicito riferimento all’opera di Ermogene,[57]
ovvero con rimandi rapidi ed essenziali richiama nel lettore un bagaglio di
conoscenze consolidato ed individuabile. In particolare la dottrina delle στάσεις elaborata da
Ermogene, con la sua esposizione tassonomica di tutti i possibili soggetti con
cui un oratore potrebbe misurarsi nell’affrontare un determinato argomento, si
rivela per Siriano oltremodo utile, in quanto fornisce un articolato e
precostituito piano di composizione per il discorso protrettico. Tra gli altri,
un riferimento puntuale per l’articolazione della struttura retorica
dell’opuscolo è dato dal cap. 2.4 dello pseudoermogeniano Περὶ εὑρέσεως, nel quale sono
esposte le modalità con cui possono essere organizzati gli argomenti che
costituiscono la preesposizione (προκατάστασις) e la narrazione (διήγησις): della trattazione
Siriano privilegia l’articolazione dei discorsi per la guerra ed esplicita
l’intenzione di tralasciare la confutazione di questo argomento, ovvero la
pace, a differenza della fonte, che presenta e l’una e l’altra.[58]
Dalla
fonte l’Autore trae in maniera quasi sistematica nozioni e definizioni: δηµηγορίαι (Rhet. mil. 1.3 e 7.1: Meth. 36); πραγµατική (sott. στάσις, Rhet. mil. 3.2 e 7.1: Stat. 2); πρόβληµα (Rhet. mil. 7.2, 8.1: Meth. 21); προοίµιον, προκατάστασις, προδιήγησις, προκατασκευή (Rhet. mil. 4.1-2, 5.2: Inv. 2.1 e 3.2); διήγησις (Rhet. mil. 6.3: Inv. 2.1 e 2.7); προβολή (Rhet.
mil. 4.2, 7.2, 8.1: Stat. 4); κεφάλαιον (Rhet. mil. 7.2: Inv. 3.4); ἐπιχείρηµα (Rhet. mil. 7.2 e 25.1-2: Inv. 3.5); ἐργασία (Rhet. mil. 7.2 e 29.2: Inv. 3.7); ἐνθύµηµα (Rhet. mil. 7.2, 35.1 e 35.3: Inv. 3.8-9); νόµιµον, δίκαιον, συµφέρον, δυνατόν, ἔνδοξον, ἐκβησόµενον (Rhet. mil. passim 8-18: Stat. 7); ἐπίλογος (Rhet. mil. 49.1: Stat. 3); δευτερολογία (Rhet. mil. 49.5: Stat. 3); ἰδέαι (Rhet. mil. 51: Id. 1.1); τραχύς e σφοδρός (sott. λόγος, Rhet. mil. 51
e 54.1: Id. 1.7 e 2.7-8). Pur
tuttavia trasceglie dal modello soltanto quanto risulta funzionale al proprio
specifico ambito di interesse. Per esempio non fornisce alcuna spiegazione per
i προοίµια ἐξ ὑπολήψεως, che il lettore
avrebbe potuto agevolmente rinvenire nel primo capitolo del Περὶ εὑρέσεως, così come evita di
soffermarsi sul τὸ γὰρ ἕτερον τῆς προκατασκευῆς, per il quale lo
Ps.-Ermogene rimanda all’autorità degli antichi:[59]
“prefazione è annuncio dei punti che stanno per essere elaborati; l’altro tipo
di prefazione, infatti, non è funzionale al presente scopo” (Rhet. mil. 4.2).
A
differenza del modello, per esigenze di chiarezza e per orientare il lettore,
Siriano riserva ampio spazio agli esempi,[60]
che traggono materia dal repertorio consolidato della tradizione protrettica:
disposizione paterna del generale nei confronti delle truppe e sua cura
costante per il loro benessere e la loro incolumità (Rhet. mil. 5.1, 22.4, 32, 36.2, 43, 44.3, 53.2), legittima
punizione dei torti perpetrati dai nemici (Rhet.
mil. 5.1-2, 13, 14.6, 28.3), esaltazione delle virtù dei soldati (Rhet. mil. 5.2, 6.1, 31, 33, 37.2),
attaccamento alla patria (Rhet. mil.
8.3, 11, 47.2-3), empietà e nefandezze degli avversari (Rhet. mil. 5.2, 13, 14.7, 26, 28.2-3), elogio degli antenati (Rhet. mil. 32, 37.7-8), memoria dei
successi del passato (28.2, 37.2, 44.4, 45.1), aspettative dei beni futuri (Rhet. mil. 8.3, 14.5-8, 28.4, 46.1),
ambizione di gloria e desiderio di ricompensa (Rhet. mil. 18.2, 21.3, 33, 45.3-10), necessità di combattere in
nome e in difesa della giustizia (Rhet.
mil. 7.2, 37.6-8).
Anche
considerazioni generali, di carattere più propriamente strategico, sono
contemplate tra gli esempi della Rhetorica
militaris, le stesse che i generali, locutori delle arringhe protrettiche,
traevano dalle trascorse esperienze o dalle situazioni contingenti: è
necessario cogliere il momento opportuno in ogni situazione (Rhet. mil. 14.3-5, 27.1, 39.5-6,
46.3-4),[61]
per questo è utile prevenire ogni iniziativa nemica (14.9);[62]
bisogna astenersi da un gesto di eroismo individuale ma che abbia effetti
letali per l’esercito (41.3-4);[63]
è giusto punire non solo chi commette ingiustizie, ma anche chi non sente il
dovere di difendere gli altri da chi se ne è reso responsabile (7.2, 9.2-3, 13,
28.2, 37.6);[64]
è della natura di ciascuno difendere ciò che è proprio (14.7, 28.4, 38);[65]
è utile e opportuno obbedire ai comandi del generale, che ha a cuore le sorti
delle truppe (5.2, 36.2, 43, 44.1-4);[66]
l’abilità in guerra è frutto di esercitazione e di esperienza (14.6, 41.1-3);[67]
la fuga può essere utile, ma soltanto a condizione di aver salva la vita,
altrimenti è meglio affrontare l’incognita della battaglia piuttosto che andare
incontro ad una morte disonorevole (39.6, 52.8);[68]
la fortuna è spesso arbitra degli eventi umani (14.5-6, 46.5-7).
La Rhetorica militaris rappresenta, così,
un elemento tanto originale quanto unico di raccordo fra retorica, tradizione
protrettica e polemologia, l’unico manuale di retorica militare che la
tradizione ha serbato. Se è vero che “la retorica antica non ha mai fornito
precetti per i discorsi dei generali”, dal momento che, evidentemente, le
allocuzioni effettivamente tenute sul campo non potevano che essere
improvvisate e calibrate per l’occasione,[69]
è altresì vero che le cronache di guerra hanno determinato caratteri di
omogeneità tali da essere, poi, considerati suscettibili di codifica: “ammesso
che gli storici antichi riuscissero a informarsi sugli argomenti usati, nella
maggior parte dei casi non erano in grado di precisare in che modo e in quali
circostanze il generale si era rivolto ai soldati e non potevano far altro che
ricostruire un discorso per così dire canonico, cioè formalizzato, affine per
struttura e stile ai discorsi, di genere diverso, che si studiavano nelle
scuole di retorica”.[70]
Trovarono
soluzioni ad esigenze avvertite anche in altre epoche. In piena età dei Lumi,
Gabriel Bonnot de Mably guardava agli scrittori di storia greci e romani per i
suoi precetti De la manière d’écrire
l’histoire. Considerava l’utilità che i discorsi potevano rappresentare per
delineare i caratteri dei protagonisti, ovvero rendere la narrazione “plus
vive, plus animée et plus interessante”, il lettore di quegli eventi spettatore
o attore, pur nella consapevolezza di essere davanti ad un’invenzione
magistralmente architettata:
Mais faites attention
que vous introduisez le roman dans l’histoire. Le lecteur se défie de toutes
ces harangues, il sent qu’elles sont l’ouvrage de l’historien, et dès-lors
l’histoire ne lui inspire plus aucune confiance. [...] Les lecteurs qui ne
songent qu’à s’amuser ne chicaneront point un historien qui leur plaît; et ceux
qui ayant plus d’esprit, cherchent à s’instruire, savent bien que ces harangues
n’ont point été prononcées; mais ils veulent connoître les motifs, les pensées,
les intérêts des personnages qui agissent; on exige que l’historien qui doit
les avoir étudiés éclaire et guide notre jugement; et on lui sait gré de
prendre un tour qui frappe vivement notre imagination et rend la vérité plus
agréable à notre raison. Ces
harangues animent une narration; nous oublions l’historien, nous nous trouvons
en commerce avec les plus grands hommes de l’antiquité, nous pénétrons leurs
secrets, et leurs leçons se gravent plus profondément dans notre esprit. Je
suis présent aux délibérations et à toutes les affaires; ce n’est plus un récit,
c’est une action qui se passe sous mes yeux”.[71]
IMMACOLATA ERAMO
Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” Dipartimento di
Scienze dell’Antichità Palazzo Ateneo, Piazza Umberto I n.1
70121 Bari (Italia) i.eramo@lettere.uniba.it
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[1] Isocr. 15.233. Sull’abilità oratoria di Temistocle cf. anche Hdt. 7.143, 8.59-63, 83, 109, Thuc. 1.93.3.
[2] FLEURY (2001: 118).
[3] µύθων τε ῥητῆρ' ἔµεναι πρηκτῆρά τε ἔργων (Il. 9.443).
[4] Il. 4.287.
[5] Il. 3.221-223, trad. R. Calzecchi Onesti.
[6] Il
verso formulare che fa riferimento all’esito positivo dell’arringa compare, in Ringkomposition, in Il. 5.470 e 792, 6.72, 11.291, 13.155, 15.500, 514 e 667, 16.210 e
275.
[7] Cf. Xen. An. 3.1.36: εὖ τοίνυν ἐπίστασθε ὅτι ὑµεῖς τοσοῦτοι ὄντες ὅσοι νῦν συνεληλύθατε µέγιστον ἔχετε καιρόν.
[8] Alessandro in Hdn.
6.3.3. L’incipit della demegoria è
degno di attenzione, soprattutto per il riferimento a λόγοι συνήθεις, propri del periodo
di pace, forse anche quelli di circostanza usati in occasione della proclamazione
ad imperatore, là dove la difficoltà del contingente si profila in seguito al
tentativo, andato a vuoto, di ricorrere alle vie della diplomazia e della
persuasione (6.3.5).
[9] Jos. BJ 6.1.34-36. La considerazione
scaturisce proprio dalla difficoltà, che preoccupa Tito, di scalare le mura
dell’Antonia. Egli è fermamente convinto che la προθυµία dei combattenti
possa essere stimolata dalle parole, che le esortazioni possano far dimenticare
i pericoli o addirittura disprezzare anche la morte (Jos. BJ 6.1.33; cf. anche Xen. Cyr.
1.6.19: “un comandante deve riservare gli incitamenti ai momenti di più grande
pericolo”).
[10] SOLMSEN (1954: 2).
[11] Sui
motivi caratteristici dell’allocuzione protrettica vd., fra gli altri, ALBERTUS
(1908: 24-25), KEITEL (1987: 154-160), con esempi tratti soprattutto dalla
storiografia latina, PRITCHETT (1994: 96-98), NAVARRO ANTOLÍN (2000: 86),
IGLESIAS ZOIDO (2007: 143-144).
[12] “Faremo bene a
cominciare solennemente da Omero. Questi, infatti, […] ha fornito il modello e
l’origine a tutti i generi dell’eloquenza. […] Infatti, a non parlare degli
encomi, delle esortazioni, delle consolazioni, […] nessuno sarà così privo di
senso artistico da non riconoscere che questo poeta ha trattato con assoluta
padronanza gli affetti, gli uni, quelli miti, o gli altri, quelli veementi. […]
E poi, le similitudini, le amplificazioni, gli esempi, gli episodi, le prove
materiali e le prove razionali e gli altri espedienti per dimostrare e
confutare sono così numerosi che anche gli scrittori di retorica ricercano in
questo poeta moltissimi esempi di tal genere” (Quint. Inst. 10.1.46-51, trad. A. Milazzo); ma cf. anche Cic. Br. 40: neque enim iam Troicis temporibus tantum laudis in dicendo Ulixi
tribuisset Homerus et Nestori, quorum alterum vim habere voluit, alterum
suavitatem, nisi iam tum esset honos eloquentiae; neque ipse poeta hic tam
ornatus in dicendo ac plane orator fuisset. Diverse furono le posizioni dei
retori antichi circa i caratteri di τέχνη che avrebbe assunto
l’oratoria omerica: cf. KENNEDY (1957).
[13] Nestore in Il. 8.139-144, Ettore a 8.173-176,
Agamennone a 9.116-118.
[14] Agamennone in Il. 5.529-532.
[15] Agamennone in Il. 2.110-141, 9.17-28 e 14.65-81.
[16] Agamennone in Il. 4.370-400, Nestore a 7.123-160, Agamennone a 10.67-69.
[17]
“Su, combattete contro le navi; e chi fra di voi ferito o colpito ha da trovare
destino di morte, muoia; bello per lui, difendendo la patria, morire, e salva
la sposa sarà e i figli in futuro e intatti i beni e la casa, quando gli Achei
fuggiran con le navi alla terra paterna”: Ettore in Il. 15.494-499 (trad.
R. Calzecchi Onesti);
ma anche Ettore a 12.245-246 e 17.220-232.
[18] Odisseo in Il. 2.248-249.
[19] Tideo nel rimprovero
che Agamennone rivolge al figlio Diomede in Il.
4.376-400, Achille nelle parole di Era sotto le sembianze di Stentore a
5.787-791.
[20] Agamennone in Il. 8.289-291, Ettore a 10.303-312.
[21] Su tali esempi cf.
WEST (2007: 477-479).
[22] “A chapter of Thucydides’ own memoirs – on «What I would have said if I had been in command at the time»”: HARDING (1973: 179); ma già JEBB (1880: 293-295) aveva esaminato i discorsi protrettici dell’opera di Tucidide secondo questo punto di vista.
[23] Plut. Glor. Athen. 347A. Opportunamente
NICOLAI pone in rilievo la differenza rispetto alla pretesa scientificità
invocata dagli storici moderni tramite il ricorso a cifre e statistiche: “molti
storici moderni costruiscono con ogni mezzo un’illusione di scientificità
nell’intento di rimuovere ogni traccia di intervento personale e soggettivo. Ma
la scrittura della storia rimane, a dispetto di ogni sforzo, un’operazione
soggettiva” (2006: 105).
[24] VEGETTI (1975: 160).
[25] È altamente
probabile che Tucidide abbia ottenuto gran parte delle informazioni
riguardanti Demostene da Demostene
stesso, così come che egli sia stato in Sicilia e abbia tratto la dettagliata
descrizione dell’assedio di Siracusa da testimoni di parte e siracusana e
ateniese: GRUNDY (19482: 26- 27, 39-40, 505-506; 1948: 138-141); HAMMOND (1973:
52-53).
[26] CANFORA (1992: 381).
[27] Sulla consistenza
dell’uditorio di Brasida cf. LONGO (1983: 148-149).
[28] Probabilmente, come
nota WESTLAKE, Tucidide sintetizza due diversi momenti della vicenda:
l’assemblea convocata per deliberare circa la condotta da adottare nei
confronti dell’esercito ateniese, in cui ciascuno dei beotarchi espone il
proprio punto di vista, e il discorso di incoraggiamento nel quale Pagonda
riprende le argomentazioni utilizzate in assemblea (1968: 312).
[29] Circa la dinamica
dell’azione, secondo HANSEN Pagonda schiera l’esercito e invita ciascun reparto
a fare un passo in avanti, posare gli scudi e ritornare al proprio posto mentre
egli passa al reparto successivo (2001: 113-114). Polemicamente rintuzzando le
opinioni di Hansen, PRITCHETT ritiene che Pagonda chiami a parte ogni λόχος per arringarlo, e
questo sia per la diversa origine etnica sia anche per non essere ascoltato
dagli altri beotarchi (1994: 56-59 e 2002: 42-45). Di “epipolesi capovolta”
parla LONGO (1983: 152).
[30] Per gli elementi
protrettici, e ‘aprotrettici’, dei due discorsi cf. le annotazioni di VATTUONE
(1978: 45-102, 126-144, 153-181) e SCARDINO (2007: 526-531).
[31] “The best Byzantine military historian of any period of Byzantine history, early, middle, or late”: KAEGI (1990: 53).
[32] Cf. Proc. Pers. 1.1.3. Sulla descrizione degli
eventi di cui Procopio ha avuto contezza diretta o fonti di prima mano vd.
CAMERON (1985: 5-15, 134-137).
[33] Della conoscenza di
precetti militari è prova il suggerimento che fornisce a Belisario, di fronte
alla incapacità dei Romani di richiamare indietro i compagni: Procopio
consiglia di utilizzare un duplice segnale, il corno della cavalleria deve
indicare l’attacco, quello della fanteria la ritirata; la diversa conformazione
dei due strumenti musicali renderà difficile la confusione. Il suggerimento è
preceduto da una ‘lezione’ su come gli antichi distinguevano i due segnali
(Proc. Goth. 6.23.23-28).
[34] Si veda il
trattamento che Giustiniano riserva ad Isdiguna, inviato da Cosroe, al cui
interprete concede l’onore inusuale di sedere alla mensa del sovrano e che
congeda con doni cospicui (Proc. Pers.
2.28.40-44). Quanto poi al modo con cui Belisario accoglie un altro inviato di
Cosroe, Abandane, di tale impatto emotivo da indurre l’ambasciatore a riferire
di desistere da ogni proposito bellico contro un generale che in coraggio e in
astuzia supera tutti e i cui soldati non sono da meno (Proc. Pers. 2.21.1-14), si può ben ritenere
che l’espediente faccia parte dell’armamentario psicologico cui i generali più
accorti ricorrono per destabilizzare il nemico (in particolare si può ricordare
il precetto di intavolare trattative facendosi accompagnare dai soldati più
prestanti e meglio armati presente in Onas. 10.14).
[35] Proc. Vand. 4.11.44: gli strateghi mauri
rinvengono un motivo suasorio nella mutabilità della sorte, che non può sempre
accompagnare i nemici, e nella assenza di Belisario, la cui ἀρετὴ στρατηγοῦντος era stata il motivo
delle precedenti sconfitte.
[36] KAEGI (1983: 6) ben
opportunamente legge nelle parole dei protagonisti dei Bella di Procopio i caratteri propri della strategia di
Giustiniano. Evidentemente proprio lo spazio concesso alla figura di Belisario
e le caratteristiche delle campagne che egli condusse, nelle quali oltre a
scontri veri e propri un posto considerevole occupavano le attività strategiche
e di negoziazione, indussero Giorgio Cedreno a riferirsi alle Guerre di Procopio in termini di τὰ τοῦ Βελισαρίου στρατηγήµατα (1. 649,1-2 Bekker).
[37] KAEGI (1990: 85).
[38] Suid. Lex. π 2479. L’imitazione di Tucidide si
manifesta nella struttura, nelle descrizioni, nell’impianto metodologico,
diventa scoperta nelle sententiae e
Thucydide depromptae (analizzate in maniera comparativa nella dissertazione
di BRAUN 1885).
[39] È
il caso dell’esortazione di Mundila a Milano, in un momento terribile in cui
gli assediati sono prostrati dalla carestia e dalla fame: egli propone una
sortita nel campo nemico, con la quale o poter ottenere una fortuna superiore
alle aspettative oppure andare incontro ad una morte eroica, che sarà
ugualmente fortunata in quanto metterà fine alle tribolazioni presenti; i
soldati, tuttavia, sceglieranno di arrendersi in massa alle condizioni dettate
dal nemico (Goth. 6.21.30-38).
[40] Gli ambasciatori armeni, inviati
da Cosroe per chiederne l’alleanza in nome dei comuni natali, rimproverano
l’accordo che i Parti strinsero con i Romani, che “uno non sbaglierebbe a
definire completa rovina” (Pers.
2.3.36).
[41] Ulteriori esempi
sono presenti in altri luoghi dell’opera di Procopio. Per es. vd. Belisario in Vand. 4.1.13: per chi è abituato a
vincere non c’è bisogno di incoraggiamento, in quanto il suo animo è alieno da
ogni forma di timore; inoltre Solomone in Vand.
4.12.14.
[42] Dion. H. Pomp.
3.20, 5.6, Thuc. 34,
Marcell. VThuc. 38 e
42, Phot. Bibl. 47,11a26.
Tra i contributi dei moderni, per i discorsi
protrettici in Tucidide costituiscono ancora un punto di riferimento LUSCHNAT
1942 e LEIMBACH 1985. Si veda, da ultimo, la sintesi critica in IGLESIAS ZOIDO
(2007: 144-153).
[43] Come esempio di συµβουλευτικὸς λόγος o δηµηγορία Polibio riporta,
traendolo come spunto polemico dalle Storie
del Tauromenio, il discorso di Ermocrate agli abitanti di Gela e Camarina
(25k.6- 7), di παρακλητικός il λόγος di Timoleonte ai
Greci per indurli allo scontro con i Cartaginesi (26a), di πρεσβευτικός quello di Pirro (si
evince da 25k.2, dal momento che Pirro è citato accanto ad Ermocrate e
Timoleonte, ma il discorso non è sopravvissuto nella tradizione polibiana). Per
un comm. al luogo ed esempi di demegorie protrettiche nell’opera di Polibio:
SACKS (1981: 79-95), NICOLAI (1999 e 2006: 75-105), TARAGNA (2000: 22-28). Il
problema dell’identificazione e della conseguente appropriata denominazione non
riguarda solo il mondo antico, se si considera che anche nella riflessione
moderna si individua nel termine “protreptic” propriamente l’esortazione
parenetica, che incoraggia piuttosto che persuadere, distinta invece dal discorso
che lo stesso generale tiene ai soldati, ma non a fini protrettici, cui ci si
riferisce con l’attributo “symbouleutic”: vd. in merito HANSEN (1993: 167).
[44] Dion. H. Pomp. 3.2. Circa i discorsi parenetici
delle Storie erodotee, non vere e
proprie arringhe, ma ‘rudimenti’ del genere, cf. BURGESS 1902 (198 e 211) e
NAVARRO ANTOLÍN (2000: 84); ovvero caratterizzate da idee semplici e dirette,
molto simili a quelle effettivamente pronunciate dai generali sul campo di
battaglia: IGLESIAS ZOIDO (2008: 236-237)
[45] Dion. H. Thuc. 16. Nel cap. 17 riporta l’esempio
del discorso ‘inopportuno’ di Cleone e Diodoto nella seconda assemblea di
Mitilene (Thuc. 3.36-48), lamentando l’assenza di quelli della prima assemblea
tenutasi ad Atene. In generale, sulla posizione di Dionigi cf. SACKS (1986:
386-392), GABBA (1996: 65-71), TARAGNA (2000: 33-40) e SCARDINO (2007: 4-5).
[46] Dion. H. Rh. 7.2 e 3: “Un discorso, infatti, si
addice a tutte le circostanze e offre stimolo ad ogni impresa. Così i soldati,
in guerra e in battaglia, hanno bisogno del discorso di esortazione da parte
dei generali e, in tal modo, diventano persino più forti di loro. […] Come
infatti anche nell’esercito, i più valorosi, dopo aver udito i discorsi dei
generali, ambiscono al massimo grado alla vittoria, così anche coloro che
partecipano agli agoni, se hanno accolto i discorsi di esortazione con animo
ben disposto: essi, infatti, aneleranno alla vittoria con tutte le loro forze”
(trad. A. Manieri). Più che “esortazione agli atleti”, tale discorso si
configura in maniera più netta come “protrettico alla vittoria”, pertanto
legittimato a trarre spunti ed elementi dalle arringhe militari: BURGESS (1902:
209-210), IGLESIAS ZOIDO (2007: 156-157).
[47] La
parenesi del generale alle truppe è citata come esempio in Aristid. 27.42,
Theon Prog. RhG
2. 115,15-17 Spengel,
Lib. 12.1.5. Per questo motivo HANSEN ritiene l’arringa essenzialmente una
“historiographic fiction” piuttosto che “a rhetorical fact” (1993: 164-165 e
2001: 96).
[48] Sulla parenesi in oratio obliqua di Nicia, in particolare
sul significato da attribuire al suo ἀρχαιολογεῖν, vd. LATEINER (1985:
201-208), CAGNAZZI (1986), IGLESIAS ZOIDO (2000: 521-523), ΠΑΝΑΓΟΠΟΥΛΟΣ (2006), SCARDINO
(2007: 634-636).
[49] Anonymi Byzantini Rhetorica militaris nunc primum edita, in: Index Lectionum in Literarum Universitate
Turicensi, Turici, ex officina Zürcheri et Furreri 1855 e 1856. Una nuova
edizione, con traduzione e commento, è in preparazione a cura della scrivente.
[50] Il titolo De re strategica (o Περὶ στρατηγικῆς), con cui lo scritto
è vulgo noto, si deve ai primi
editori, Hermann KÖCHLY e Wilhelm RÜSTOW, i quali anche suggerirono, come
soluzione alternativa, Πολιτικῆς πρατικὸν µέρος (1855).
[51] MÜLLER (1882). Sulla
composizione e le caratteristiche codicologiche dell’Ambrosianus B 119 sup. e il milieu
politico e culturale che ne accompagnò la nascita vd. MAZZUCCHI (1978) e la
ulteriore bibliografia segnalata in ERAMO (2007: 127, n. 1).
[52] DAIN (1937: 67 e
1943: 43-44).
[53]
Sull’attribuzione dei tre scritti ad una medesima mano un punto di riferimento
è dato dallo studio di ZUCKERMAN (1990). Circa la datazione dell’intero
compendio, l’ipotesi accreditata fino a tempi recenti (VI sec. d.C.) è stata
messa in discussione da una serie di interventi, da parte di BALDWIN (1988), LEE-SHEPARD
(1991), COSENTINO (2000) e RANCE (2007). Per una sintesi della questione: ERAMO
(2009 e 2010).
[54] βιβλία ἱστορικά, ἐξαιρέτως δὲ τὸν Πολύαινον καὶ τὸν Συριανόν (467, 8-9 REISKE =
106, 198-199 HALDON).
[55] Τακτικὰ ἤγουν στρατιγικὰ ᾿Αριανοῦ, Αἰλιανοῦ, Πέλοπος, Πολυαίνου, ᾿Ονοσάνδρου, ᾿Αλκιβιάδου, ᾿Αρταξέρξου,
Συριανοῦ,
᾿Ανίβα,
Πλουτάρχου,
᾿Αλεξάνδρου,
∆ιοδώρου,
∆ίωνος,
Πολυβίου,
῾Ηρακλείτου, Μαυρικίου, Νικηφόρου καὶ ἄλλων τινῶν, συλλεγὲν παρὰ Νικηφόρου µαγίστρου τοῦ Οὐρανοῦ ἀπὸ πολλῶν ὡς εἴρηται ἱστορικῶν ἐν ἐπιµελείᾳ πολλῇ (DAIN
1937: 13, 94).
[56] Il corpus ermogeniano, formatosi intorno al
V-VI sec. d.C., comprende il Περὶ τῶν στάσεων, il Περὶ ἰδεῶν, il Περὶ
µεθόδου δεινότητος, i Προγυµνάσµατα e il Περὶ εὑρέσεως (questi ultimi
considerati pseudoepigrafi già dagli antichi). L’enorme fortuna di questa
raccolta in età bizantina (“tutti quanti hanno tra le mani la Τέχνη ῥητορική di Ermogene”: Suid. Lex.
ε 3046) è testimoniata
dal gran numero dei commentatori, i cui scholia
e prolegomena sono leggibili
nella raccolta di Walz, e le cui spesso prolisse parafrasi e interpretazioni
furono considerate corollari ineludibili all’opera del Maestro: Troilo (III
d.C.), Siriano (metà V sec.), Sopatre (prima metà VI sec.) e Marcellino (VI),
Dossopatre (prima metà XI sec.), Gregorio di Corinto e Massimo Planude (XIII
sec.), Matteo Cammariota (XV sec.), oltre ad uno stuolo di commentatori
anonimi.
[57] Rhet. mil. 3.2; 25.2. Sulle fonti del compendio, la loro
elaborazione e le modalità di citazione e richiamo rimando a ERAMO (2008).
[58] “Noi invece [...]
non elaboreremo argomenti contrari – come, infatti, sarebbe possibile? – ma
esorteremo soltanto alla guerra, che è una delle due parti della questione
relativa a pace e guerra; perciò abbiamo tralasciato di dire qualcosa anche
della confutazione” (Rhet. mil. 3.3).
[59] Hermog. Inv. 3.2: “esiste un altro tipo di
prefazione, inventata dagli antichi, che non preannuncia argomenti, ma fornisce
dimostrazioni sul fatto che la causa appaia essere trattata conformemente alle
leggi. Ben opportunamente è chiamata ‘prefazione’, dal momento che si tratta di
parole pronunciate prima degli argomenti, che con ragionamenti loro propri
evocano tutta quanta l’argomentazione”. Per rendere più chiara la definizione,
lo Ps.-Ermogene cita l’esempio di Dem. XXI,9, in cui viene enunciata
l’articolazione della legge che disciplina la presentazione di denunce
preliminari. Sulla ripresa cum variatione
di questo luogo vd. già ZUCKERMAN (1990: 220, n. 32).
[60] “Faremo questo non
solo attraverso un’esposizione didascalica, ma anche in modo pratico e quindi
anche attraverso esempi, sia per chiarezza sia anche per abbondanza di elementi
simili; i motivi dei discorsi, infatti, offrono ricchezza di argomenti a quanti
intendono elaborare discorsi in maniera simile” (Rhet. mil. 8.1).
[61] Sull’opportunità che
il comandante adegui il proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze acquisite
alle circostanze del momento vd. già Thuc. 1.138.3; Xen. Hipp. 9.1; Mem. 3.1.6.
Alla base opera il convincimento secondo cui in guerra non è sempre possibile
prevedere il futuro o disporre di piani precostituiti validi per ogni occasione
(Onas. 21.4). Il principio verrà ripreso, tra le altre, nelle allocuzioni
protrettiche di Solomone (Proc. Vand.
4.20.6) e Totila (Goth. 8.30.14).
[62] La capacità di
prevenire le mosse del nemico, cogliendolo impreparato e perciò indifeso, è
abilità propria di strateghi quali Brasida (Thuc. 2.93 per Megara e 5.9 per
Amfipoli) e Demostene (3.112.2-4 per la campagna in Ambracia, 4.32.1-2 per
Sfacteria). Invano caldeggia l’opportunità di un attacco a sorpresa Teutiaplo a
Mitilene, richiamando il motivo del τὸ κενὸν τοῦ πολέµου, ‘vuoto’ che un
generale deve evitare, ma saper cogliere nel nemico per riscuotere possibilità
di successo (3.30.2-4).
[63] Nel sistema di
valori che informa l’ordinamento della falange, la εὐταξία è garanzia di
salvezza, come la ἀταξία di disgrazia (Xen. An. 3.1.38). Significativo appare anche,
in un contesto pre- falangitico, il monito che Nestore rivolge ai cavalieri in Il. 4.303-305: nessuno, pur fidando
nella propria forza o nelle capacità del proprio destriero, combatta solo e
davanti agli altri, nessuno retroceda, perché così facendo sconvolgerebbe
l’assetto delle truppe e voterebbe tutto l’esercito alla disfatta.
[64] Sulla necessità di
punire chi commette ingiustizie ruota l’esortazione che Mardonio rivolge a
Serse in occasione della seconda spedizione in Grecia (Hdt. 7.5), come anche il
discorso con cui Stenelaida cerca di convincere l’assemblea lacedemone a votare
la guerra contro gli Ateniesi (Thuc. 1.86). Il principio secondo cui la
giustizia è virtù propria non solo di chi non commette malefatte, ma anche di
quanti sentono il dovere di difendere gli altri dalle ingiustizie perpetrate
dagli avversari è presente nel discorso degli ambasciatori dei Lazi ai Persiani
in Proc. Pers. 2.15.20.
[65] La difesa e la
custodia dei propri beni o familiari è motivo insistente nell’ambito
protrettico: si vedano le parole di incoraggiamento di Trasibulo (Xen. Hell. 2.4.17) o di Lucio Emilio Paolo
prima di Canne (Polyb. 3.109.7) o di Gubaze (Proc. Goth. 8.8.8-9). Chi tuttavia ben conosce lo stato d’animo delle
truppe prima dello scontro sa bene che non sempre la difesa del proprio
rianima, al contrario l’attaccamento eccessivo a quanto appartiene o è caro
infiacchisce le forze e priva della necessaria lucidità (Belisario in Proc. Vand. 4.1.25).
[66] Nel fornire consigli
sul comando al figlio Ciro, Cambise teorizza che non si può pretendere
obbedienza dai soldati se non si ha cura delle loro sorti, perciò il generale
deve trascorrere le notti a pianificare le attività diurne, di giorno adoprarsi
a che i soldati trascorrano al meglio le ore notturne (Xen. Cyr. 1.6.42). In questa maniera si
dimostra come ogni decisione, anche quella più gravosa e infelice, sia volta al
beneficio dell’intero esercito (Xen. Hell.
5.1.14-15, Mem. 3.1.11), magari
illustrando quali vantaggi i soldati possano ottenere se sono obbedienti, quali
pene sono invece riservate agli indisciplinati (Xen. Hipp. 1.24).
[67]
Secondo la tradizione polemologica, sia maturata sul campo che elaborata e
codificata nella manualistica di genere, la guerra necessita, come tutte le
attività pratiche che si configurano come τέχνη
(per es. la scultura e la musica: Xen. Mem.
1.2.9, 3.1.4 e 3.12), di una fase di apprendimento e di θεωρία
prima, di µελέτη
poi. Per questo anche in tempo di pace è opportuno dedicare particolare
attenzione all’addestramento: il generale dovrà distribuire le armi e schierare
i fanti in tutte le formazioni possibili, insegnare loro le singole manovre, in
modo che i soldati diventino esperti e non si confondano, farli combattere com
armi finte, organizzare scontri simulati e scaramucce per la cavalleria (Onas.
10.1-6). È quindi opportuno mettere le reclute in condizione di maneggiare
armi, colpire bersagli, scavare fossati, schivare colpi, montare a cavallo,
trasportare pesi (Veg. 1.4.5-9, 8.6, 9-19 etc.). Ben evidenziarono il valore
dell’esercizio in guerra le attività poste in essere da comandanti quali
Scipione (che elaborò un vero e proprio programma di addestramento: Polyb.
10.20; Frontin. Strat. 4.1.1; Veg.
3.10.20) o Cesare (che imponeva a sorpresa esercitazioni estenuanti: Svet. Jul. 65) e le campagne che avevano
assicurato ai Romani la superiorità militare rispetto ad avversari non abituati
alle fatiche di guerra e non debitamente esercitati (come gli insorti in
Giudea: Jos. BJ 3.2.13-15).
[68] La morte in guerra
assimilata alla migliore delle vite, in quanto alternativa alla gloria della
vittoria piuttosto che al disonore rappresentato dalla fuga, costituisce
argomento protrettico di sicura presa emotiva. Lo utilizzano Senofonte dopo
Cunassa (Xen. An. 3.1.43), Annibale
al Ticino (Polyb. 3.62-63), Lucio Emilio Paolo a Canne (3.109.8) e Scipione a Zama
(15.10.3-7).
[69] Polibio rivolge a
Timeo l’accusa di aver riportato l’allocuzione di Timoleonte ai Greci prima
della battaglia contro i Cartaginesi utilizzando un argomento, l’inferiorità
numerica dei soldati, infarcito da una serie di elementi di corredo – il
proverbio circa la presenza dei deserti in Libia o il riferimento
all’abbigliamento del nemico – più confacenti agli studenti delle scuole di
retorica che a generali in procinto di scendere in campo contro il nemico
(12.26a.1-4; il senso polemico del luogo è chiarito da 12.26.9).
[70] NICOLAI (2006: 85).
[71] BONNOT (1783: 397-398).