EMMANUELE SANTAMATO
(Università “Federico II” di Napoli)
IL TERMINE PROBATIO TRA RETORICA, STORIA E DIRITTO
The word probatio between Rhetoric,
History and Roman law
ABSTRACT:
The word probatio points
to an approbatory statement, delivered by the
magistrate or another public authority, in connection to a document or work presented for examination. The present
study intends to offer a wider view of its meanings,
which will take into account
how differently the term is used in trials,
and in scientific, administrative, contractual fields. Part of the essay will be devoted
to explain some uses of the term among the most important latin historians. The aim is to enlighten, among the meanings of the term, its “contractual” nuance, which seemed to us the most essential one for the complete understanding of the word.
KEY WORDS: probatio, proof, building contract, arbitratus, locatio conductio.
SINTESI: Il termine «probatio» indica una dichiarazione approvativa emessa dal magistrato o da altra autorità competente in relazione a una documentazione o opera presentata a vaglio.
Il presente lavoro si propone
di offrire una ampia panoramica delle sue accezioni, che tenga conto dei vari utilizzi:
nel campo processuale, in quello scientifico, in quello amministrativo e contrattuale. Un paragrafo specifico del lavoro sarà dedicato
ad alcuni utilizzi del termine
presso alcuni dei maggiori
storici latini. Si tenterà di fare emergere, nel significato del termine,
una sua sfumatura
“concordataria”, quella che ci è sembrata la più essenziale per la sua comprensione.
PAROLE CHIAVE: probatio, prova, appalto, arbitratus, locatio conductio.
Fecha de Recepción: 29 de febrero de 2012.
Fecha de Aceptación: 17 de septiembre de 2012.
IL THESAURUS LINGUAE LATINAE, classifica le accezioni del termine
probation
in due tipologie
generali:[1]
I
: “cum respectu esaminandi
vel approbandi, sc. Probatur quod temptatur vel quod bonum, gratum
esse iudicatur”
II
: “cum respectu demonstrandi, confirmandi, sc. Probatur aliquid ita esse, verum esse”
Ognuna di queste,
è divisa in due sottotipologie:
I
A: “usu communi” I B: “usu cristiano”
II
A: “ratiocinatione, argumentatione, documentis scriptis”
II
B: “ipso specie,
ipso facto”
Nella seguente indagine, studieremo vari esempi specifici, che possono essere
riferiti a ciascuna
delle tipologie. Lasceremo
da parte il significato legato all’uso
più comune del verbo probare, ovvero il semplice
“approvare, essere d’accordo, accettare”, dato che non necessita
di ulteriori delucidazioni; come anche l’accezione che il TLL rubrica come I B (usu christiano), in quanto
fa riferimento a categorie
concettuali e filosofiche lontane da quelle comunemente utilizzate nel mondo classico.
Ci concentreremo invece su vari utilizzi del termine in senso più specifico o tecnico: nel campo retorico,
processuale, scientifico, amministrativo. Infine, riserveremo un capitolo
specifico alle occorrenze nella storiografia latina più significativa.
Un particolare riguardo si terrà nei confronti
dell’accezione che lega questo
termine alle opere edilizie e ai processi amministrativi. Si tenterà di fare emergere, nel significato del termine,
una sua sfumatura “concordataria”, quella che ci è sembrata
la più essenziale per la sua comprensione. Vedremo poi come questa sfumatura è comunque
ravvisabile anche in altri ambiti.
Cicerone, Gaio e Quintiliano: la probatio dell’avvocato, del giudice e del retore.
Al di fuori del campo delle
opere pubbliche, Cicerone presenta il termine
probatio/probare con due riferimenti: 1) adduzione
di prove processuali alla sua tesi; 2) approvazione, più o meno soggettiva, di comportamenti o condotte,
che caratterizzano i personaggi fatti oggetto di probatio. Il termine si presenta sotto due prospettive: dal lato di chi presenta
l’argomentazione e quindi vuole persuadere e da parte di chi valuta ciò che ha ascoltato o visto, ovvero emette un giudizio. Esaminiamo alcuni
luoghi rilevanti per il primo aspetto:
Sustinebunt tales viri se tot senatoribus, tot equitibus Romanis, tot civitatibus, tot hominibus honestissimis ex tam inlustri provincia, tot populorum
privatorumque litteris non credidisse, tantae populi Romani
voluntati restitisse? [Cic. Verr. 2.1.10].
Sed ego habebo rationem auctoritatis meae; meminero
quo animo, quo consilio ad causam publicam accesserim; non agam tecum accusatorie, nihil fingam, nihil cuiquam probari volo me dicente quod
non ante mihimet ipsi probatum sit.
[Cic. Verr. 2.3.164].
Est ridiculum ad ea quae habemus
nihil dicere, quaerere quae habere non possumus;
et de hominum memoria tacere,
litterarum memoriam flagitare; et, cum habeas amplissimi viri religionem, integerrimi municipi ius iurandum fidemque, ea quae depravari
nullo modo possunt repudiare,
tabulas, quas idem dicis
solere corrumpi, desiderare [Cic. pro Arch. 8].
Come si vede, due dei tre luoghi esaminati
non presentano letteralmente il termine
probatio/probare, ma sono ugualmente rilevanti, in quanto
esprimono lo
stesso concetto:
quali argomenti sono validi per portare avanti la causa. Nel primo passo, le prove documentali (litterae privatorum) vengono solo al quarto posto dopo le dichiarazioni, nell’ordine, di senatores, equites, civitates. Nel secondo
caso, la probatio è presentata come un’azione soggettiva, frutto della persuasione: con l’azione
del “probare”, l’oratore
si impegna a conciliare i giudizi
suo e dei suoi uditori.
In altre orazioni, poi, come ad esempio
in un passo della pro Archia,[2] le prove documentali vengono, oltretutto, fortemente screditate rispetto alle testimonianze orali di provenienza illustre. Né viene fatto alcun tentativo attivo di giustificare la veridicità intrinseca di tali dichiarazioni, ma la loro attendibilità è giudicata
sulla base dell’autorevolezza dei dichiaranti (misurata dal grado di influenza sociale).
In un luogo della pro Quinctio, Cicerone dichiara che sarà facilissimo per lui “provare”
l’innocenza del suo cliente,
se solo si confronterà la sua condotta
con quella di chi lo accusa:
Si causa cum causa contenderet, nos nostram perfacile
cuivis probaturos statuebamus; quod vitae ratio cum ratione vitae decerneret, idcirco nobis etiam magis te iudice opus esse arbitrati sumus. [Cic. Pro Quinct. 30].
L’essere le prove materiali
subordinate a quelle dichiarative agevolano, come risultato, che l’oggetto
della probatio, in tutti questi casi, venga spostato
da azioni di merito, alla condotta
e alla credibilità complessiva degli attori,
da cui la risposta
di merito si vuole far discendere.[3] La probatio, in sostanza, ha più a che vedere con la
persuasione, che non con una necessità intrinseca ai fatti.[4]
Nel repertorio ciceroniano, questi passi attribuiscono l’azione del probare all’oratore, o agli uditori;
passiamo adesso all’analisi degli altri casi, la maggior
parte, dove per probatio/probare si intende invece un’approvazione, da parte del giudice o della corte.
In questi,[5] la probatio è intesa
come una valutazione autonoma di chi ha autorità, che ancora prescinde
da un riscontro
con qualcosa che sia esterno
a chi valuta e che, in quanto tale, meriti di essere preso in considerazione.[6] Un esempio molto limpido di ciò è sempre
nelle Verrine:
Itaque hortari homines coepit ut aliquid Sthenio periculi crearent criminisque confingerent. Dicebant se illi nihil habere quod dicerent.
Tum iste iis aperte ostendit et confirmavit eos in Sthenium quidquid
vellent, simul atque ad
se detulissent, probaturos. [Cic. Verr. 2.2.90]
A rilevare qui non è tanto che l’accusa non abbia contenuto, quanto che l’azione di probare è ad arbitrio
del magistrato, cioè è un’autorizzazione, un visto, non una valutazione di merito.
Ancora meglio ciò si vede più oltre, dove il concetto
di “prova” e “approvazione” si confondono ulteriormente:
Nam si hoc probatis et si licere pecunias isto capi iudicatis, certe hoc, quod adhuc nemo nisi improbissimus fecit, posthac nemo nisi
stultissimus non fnomine
caciet. [Cic.
Verr. 2.3.219]
Questa ambiguità
risalta altresì se si confrontano due casi, entrambi
di età imperiale, che andiamo a esaminare. Il primo proviene
dall’ambito amministrativo. Il termine (ad)probatio/probare lo troviamo infatti speso a proposito della procedura con cui un liberto, reso latino all’atto
della sua manomissione, può ottenere la piena cittadinanza romana solo se dimostra, presentando documentazione scritta, di aver sposato una cittadina romana.[7]
[Quibus modis
Latini ad civitatem Romanam perveniant.] 28. Latini vero multis
modis ad civitatem Romanam perveniunt.
29.
Statim enim ex lege Aelia Sentia minores triginta annorum manumissi et Latini facti si uxores duxerint vel cives Romanas
vel Latinas coloniarias vel eiusdem condicionis, cuius et ipsi essent, idque testati fuerint adhibitis
non minus quam septem
testibus civibus Romanis puberibus et filium procreaverint, cum is filius anniculus esse coeperit, datur eis potestas per eam legem adire praetorem vel in provinciis praesidem provinciae et adprobare se ex lege Aelia Sentia uxorem duxisse et ex ea filium anniculum
habere: Et si is, apud quem causa probata est, id ita esse pronuntiaverit, tunc et ipse Latinus et uxor eius, si et ipsa eiusdem
condicionis sit, et filius eius, si et ipse eiusdem
condicionis sit, cives Romani esse iubentur. [Gai. Inst. 1.28-29]
Il liberto, per ottenere
la cittadinanza romana, deve (ad)probare qualcosa presso il magistrato, azione che consiste
nel presentare determinati documenti. Quello che fa chiudere positivamente la pratica
non è tanto la presentazione dei documenti, quanto la pronuncia (appunto, la probatio) del magistrato; e tuttavia, l’atto del probare è qui attribuito prima al questuante, poi al giudice.
Un luogo di Quintiliano, consente di indagare
gli aspetti teorici
che stanno dietro
alla costruzione della probatio
retorica e giuridica, che abbiamo
appena osservato.
La riflessione sulle parti dell’orazione ha condotto gli studiosi
antichi ad identificare con il termine probatio, al pari della confutatio, la parte più saliente
dell’argomentazione retorica. Nell’orazione si situa, pertanto, dopo il proemio
e l’esposizione dei fatti ed è poi conclusa dalla peroratio.[8]
Quello che interessa
rilevare in questa sede è il fatto che la probatio si identifica con tutto l’apparato critico costruito dall’oratore: è il cuore del suo ragionamento. Si tratta di spiegare i “motivi”
per cui il retore pretende di aver ragione. Questi motivi, però, non sono frutto soltanto di un confronto diretto con la realtà esterna all’oratore, ma sono considerati elementi
di ragionamento da giustificarsi già all’interno del discorso,
come è evidente
nel seguente passo specifico, che Quintiliano dedica agli argumenta.
[4] Epichirema Valgius adgressionem vocat; verius autem iudico non nostram administrationem, sed ipsam rem quam adgredimur, id est argumentum quo aliquid probaturi sumus, etiam si nondum verbis explanatum, iam tamen mente conceptum, epichirema dici. [5] Aliis videtur non destinata
vel inchoata sed perfecta probatio hoc nomen accipere ultima specie, ideoque propria eius appellatione et maxime in usu posita significatur certa quaedam
sententiae comprensio,
quae ex tribus minime
partibus constat. [Quint. Inst. 5.10.4-5]
Quintiliano ha su questo un’opinione diversa, a suo dire, da non meglio
specificati “altri”: per lui, la parola argumentum,[9] che traduce il greco ἐπιχειρήµα, dovrebbe comprendere tutto ciò che bisogna dire nella causa per poterla
probare. L’azione del probare, pertanto, consiste nello spiegare
il proprio ragionamento: spiegato che lo si ha, la causa è da ritenersi probata. Nel discorso di Quintiliano, però, vi sono degli alii che presentano, invece, una versione diversa: sostengono infatti costoro che l’argumentum, una volta esposto, non è ancora
probatum, perché questa azione del probare spetta all’effetto che la parola ottiene sull’ascoltatore e dunque non può essere realizzata se non dopo aver parlato:
ovvero, è compiuta
dalla relazione con l’uditore, non solo da chi parla.
Il dibattito di cui Quintiliano, qui in questo capitolo X del libro V, ci presenta lo status quaestionis è estremamente sofisticato e non ci addentreremo ulteriormente nei suoi meandri;
ci basta osservare
che, sia nella sua che nella posizione degli altri retori, è possibile
rilevare un atteggiamento strumentale nei confronti
del dato di realtà a vantaggio
dell’elemento formale. Per i retori, Quintiliano compreso,
la
materia che probat è insita nel discorso pronunciato
e nelle dinamiche relative alla sua ricezione, e le cose reali possono al massimo
essere utilizzate strumentalmente al discorso.
La differenza tra le due posizioni (Quintiliano e “gli altri”) è nel momento cui bisogna
attribuire la probatio: se già a discorso concepito -e allora essa è insita nelle parole
stesse dell’oratore (questa è l’opinione di Quintiliano)- oppure se nell’effetto pratico che esse suscitano nel pensiero dell’ascoltatore – e in tal caso l’ascoltatore contribuisce all’azione del probare, per cui qui si osserva proprio quella interrelazione, di matrice
concordataria, tra probatio presentata e probatio accolta di cui si poteva
intravedere qualcosa a proposito
del magistrato che accoglie la documentazione del manomesso latino,
o della giuria nel processo
ciceroniano. Non può esserci dubbio,
tuttavia, sul fatto che, anche per questi “altri” autori,
la probatio fa parte dell’articolazione dell’ argumentum, e dunque non necessita di alcuna verifica
materiale: d’altra parte,
l’ argumentum è, poco prima, definito unum intellectum.[10]
Si consideri anche il seguente
passo, sullo stesso
argomento (5.10.11-13):
[11] Nam probatio et fides efficitur
non tantum per haec, quae sunt rationis,
sed etiam per inartificialia Signum autem, quod ille indicium vocat, ab argumentis iam separavi. Ergo cum sit argumentum ratio probationem praestans, qua colligitur alid per aliud et quae quod est dubium per id quod dubium non est confirmat, neccesse est esse aliquid
in causa quod probatione non egeat. [12] Alioqui nihil erit quo probemus, nisi fuerit quod aut sit verum aut videatur, ex quo dubiis
fides fiat. Pro certis habemus primum quae sensi bus percipiuntur, ut quae vidimus, audimus, qualia sunt signa, deinde ea in quae communi
opinione consensum est. [13] “Deos esse”, “praestandam pietatem parenti bus”, praeterea quae legibus cauta sunt, quae persuasione etiam si non omnium hominum,
eius tamen civitatis
aut gentis in qua res agitur in mores recepta sunt, ut pleraque in iure non legibus sed morbus constant:
si quid inter utramque
partem convenit, si quid
probatum est, denique
cuicumque adversarius non contradicit.
Quintiliano considera i dati di realtà, quelli
che egli chiama signa, indicia, o inartificialia, come validanti, insieme e alla pari di quelli razionali. Ma la connessione fattuale (aliud per aliud colligitur) è per lui frutto
del discorso, non si pone già nella realtà, in quanto è sempre l’oratore
che crea, o sceglie,
cosa connettere e come farlo.
Inoltre, questi signa vengono intesi come sostanzialmente mediati dalle sensazioni (vista, udito, ecc.),[11] e ricomposti dall’oratore tenendo in conto, con essi, la communis opinio. È evidente che, impostato in questo modo il discorso sul “quod sit verum aut videatur”, la probatio si crea più per via conciliativa che non dimostrativa. Siamo di fronte allo stesso approccio
alla realtà che rileveremo in Plinio, più oltre nel corso del nostro studio: l’oggetto è considerato in modo strumentale a ciò che serve al
soggetto probante.
Dall’analisi di tutte queste occorrenze, per riassumere e comprendere ciò che si è messo in luce fin qui, si può asserire
che, con il concetto di probatio, ci troviamo
di fronte a una prassi della comunicazione. Il contenuto del messaggio
-l’oggetto della probatio- si contratta tra l’emittente e il ricevente della comunicazione, indipendentemente dall’oggetto esterno intorno al quale ci si sta accordando.
La posizione
di Quintiliano è in sostanza
quella seguita, anche se non precisamente teorizzata, già da Cicerone, che si ritiene,
da un lato, probator della
sua stessa tesi,[12] mentre dall’altro si aspetta che i giudici siano probaturi.[13] Non perché si adduca un’
evidenza, ma perché il
suo argumentum costituisce
probatio di per sé, sia dal lato di chi parla, sia dal lato di chi ascolta.
Riassumendo, abbiamo rilevato tre sfumature della stessa accezione giuridica e retorica
del termine probatio:
1)
un significato processuale di probatio relativo solo alla quaestio, che risale
a Cicerone (Verr. 1.2.10-11) ed anche da lui non è applicato
sempre; esso è molto simile,
se non identico, al significato di “prova processuale” ed è in carico
all’avvocato (ovvero alla parte in causa),
non al magistrato giudicante. Non è facile stabilire se ciò sia uno strumento
metodologico nuovo (non pare, però: Cf. il processo a Lucio Scipione: Liv. 38.55.9-13; Pol. 23.14.5-12. Cicerone lo considera
comunque uno strumento secondario; non se ne serve sempre
e talvolta sembra rinnegarlo coscientemente come metodo (pro Arch. 8). Il ricorso alle prove sembra,
piuttosto, legato all’ottenimento di un consenso dei giudici
in ordine ad una tesi che è Cicerone
per primo a probare con il ragionamento, più che con i confronti
materiali.
2)
un significato sempre legato
a situazioni amministrative e giuridiche, in cui la probatio è in carico al magistrato, il quale “approva”, “certifica” e giudica
la materia che ha di fronte.
Ma l’azione del probare è, da questo punto di vista, sia di chi presenta la documentazione, sia di chi la valuta emettendo un giudizio
di approvazione o rifiuto (tra l’altro è interessante che si parla di probatio solo in caso di approvazione): Cic. Verr. 1.2.142 e pro Quint. 30 e anche Cic. Verr. 2. 2. 90, dove Verre probat una falsa accusa contro
il siciliano Stenio)
3) un significato in cui il valore di probatio/causam probare apparentemente si squilibra a favore di chi presenta l’argomentazione, ma in effetti nasconde la stessa procedura di certificazione/autorizzazione di una pratica da parte del magistrato. La definizione è in carico al questuante, il quale causam (ad)probat. Gai. Inst. 1.28.32).
Varrone e Plinio:
la probatio del tecnico.
Finora abbiamo analizzato l’impiego della probatio nei processi, in almeno una importante procedura amministrativa e nel dibattito retorico.
Fuori dall’ambito processuale ed amministrativo, esistono degli impieghi
“scientifici” del termine probatio, in Varrone
ed in Plinio il Vecchio,
dove esso viene impiegato per intendere
un “esame” fisico cui sottoporre animali o materiali. Ad esempio
Varrone,[14] consiglia
di
probare i buoi prima di
comprarli, dato che
arandi causa emuntur. Analogamente, Plinio il Vecchio suggerisce
alcuni metodi di probatio in riferimento ad alcuni materiali: il nardo, la ceralacca, il croco, un particolare tipo di pietra curativa,
ecc.[15]. Tutti questi esami devono essere condotti dalla mano stessa di chi probat. L’esame avrà esito positivo
se
si verificano alcune determinate
risposte alle sollecitazioni.
La differenza con l’uso processuale risiede nel fatto che il confronto
si instaura per via materiale, tra chi probat e l’oggetto probatum, cioè sottoposto
a probatio, per verificarne le risposte.
È precisamente in questo senso che il termine
probatus è utilizzato in opposizione a incognitus da
Plinio il Giovane,[16] ovvero come indicatore di stima rispetto
a una prestazione già offerta.
Essere probatus/probatum, significa, in questi
casi, aver potuto mostrare
determinate risposte a determinati stimoli, in modo da poter lasciar prevedere un buon esito futuro qualora quegli oggetti
saranno rimessi alla prova con le stesse sollecitazioni.[17]
Bisogna però intendersi bene su questi impieghi.
Questo tipo di probatio non è mai, di per sé, una verifica
olistica e disinteressata delle caratteristiche di un oggetto: il fine non è la conoscenza a tutto tondo dell’oggetto. Si tratta, piuttosto, di una sollecitazione dell’oggetto per verificare se quello risponde, in un modo o in un altro, a quelle precise sollecitazioni. Si valuta se l’oggetto, per chi probat, “è buono a…”. Non bisogna lasciarsi sviare da moderni
concetti di verifica e sperimentazione. A Plinio non interessano affatto le proprietà intrinseche della biacca,
o del nardo, o del croco. A Plinio
interessa verificare che, perché,
ad esempio, la biacca mantenga i suoi effetti benefici contro le infiammazioni, deve essere resistente all’acqua e mantenere un aspetto
appiccicoso.
Rispetto ad un atteggiamento sperimentale moderno, la differenza risiede
nel fatto che l’interesse del verificatore è volto all’utilità specifica più che alla conoscenza
olistica dell’oggetto. Il centro dell’osservazione è posto nei bisogni di chi osserva, non nell’oggetto osservato.
In questo senso, è anche comprensibile l’aneddoto, narrato da Cicerone nel de officiis,[18] dove Sofocle e Pericle
discorrono sull’opportunità di probare dei giovani per la loro bellezza.
Cicerone conclude
che la probatio non è opportuna se non nelle sedi indicate
– nel caso specifico durante i giochi,
quando le persone si mettono in mostra
per far valutare
la loro prestanza fisica – e la valutazione è comunque
intesa come soggettiva, non relazionata ad elementi o in ordine a parametri
certi, per cui non è detto che la probatio di Sofocle avrebbe dato risultati identici
a quella di Pericle.[19]
Un altro luogo ancora più indicativo per comprendere a pieno il concetto della probatio
al di fuori dello specifico
giudiziario è il seguente, di Plinio,[20] nel quale si vuole comprendere la forma del mondo:
[5] Formam eius in speciem orbis absoluti globatam esse nomen in primis et consensus
in eo mortalium orbem appellantium, sed et argumenta rerum docent, non solum quia talis figura
omnibus sui partibus vergit in sese ac sibi ipsa toleranda est seque includit
et continet nullarum
egens compagium nec finem aut initium ullis sui partibus sentiens,
nec quia ad motum,
quo subinde verti mox adparebit, talis aptissima est, sed oculorum
quoque probatione, quod convexu mediusque
quacumque cernatur, cum id
accidere in alia non possit figura.
[Plin. NH 2.5].
Questo breve brano non è solo rilevante per comprendere l’utilizzo
del nostro termine,
ma è anche un esempio di ragionamento “scientifico” secondo i parametri culturali vigenti. Plinio vuole spiegare perché il mondo dovrebbe essere una sfera e adduce quelli
che gli sembrano motivi acclarati (probationes): 1) la sfera è una figura
perfetta, tanto è vero che tutti la chiamano anche “globo”, suggerendo
così che esso sia effettivamente una sfera. Questa motivazione potrà sembrare
ingenua quanto ci pare, però Plinio la considera, per quanto non la migliore, una degna possibilità di spiegazione. Il ragionamento sottostante è costruito più o meno come segue: se tutti chiamano “globo” il mondo, e il “globo” è una sfera, evidentemente il mondo sarà “sferico”; 2) il mondo è perfetto
in sé, e anche la sfera lo è, pertanto la “forma del mondo” è una sfera.
La prova si basa su un dato geometrico: la sfera è una forma perfetta in sé perché non ha inizio e fine, si riavvolge su di sé, ecc. Siccome anche il mondo non ha né inizio né fine, esso può essere sferico;
3) Il mondo si muove in modo circolare, la sfera si muove anche in modo circolare, pertanto il mondo può essere una sfera. La motivazione è uguale all’altra
quanto al fondamento sillogistico, solo che stavolta
è dinamica, nel senso che prende in considerazione una trasformazione, che deriva dall’esperienza (il giorno e la notte, le stagioni,
il ciclo dell’acqua, ecc.).
Tutte queste “ragioni”, ovviamente, affondano nella logica più che nell’esperienza, e ciò non sfugge nemmeno all’autore, che le ammette, anche se non le considera
come le più convincenti. Plinio ci conduce pertanto alla probatio, secondo lui, più decisiva,
del fatto che la terra sia sferica; essa risiederebbe nella 4) probatio oculorum: cioè i nostri occhi mostrano,
da qualsiasi parte si guardi, che la forma della crosta
terrestre (e del cielo sopra
di essa) subisce una curvatura. Sono dunque
essi, gli occhi, che probant la sfericità del mondo, in
quanto tale curvatura sarebbe impossibile (secondo Plinio) se il mondo avesse altre forme.
È chiaro, però, anche a Plinio che il centro di questa valutazione risiede negli occhi,
non nella terra. Di essa, si
indaga null’altro che questo dato “estetico” rispetto al soggetto della probatio, in questo
caso gli oculi.[21] Ad esempio, sfugge a Plinio
l’unico elemento decisivo
per “provare” la sfericità della terra, cioè quello astronomico, che deriva dalle misure calcolate
sulle ombre – che invece Eratostene aveva già utilizzato con ottimo profitto.
Né gli viene in mente che, per dimostrare che il mondo sia tondo, si potrebbe, almeno in ipotesi,
navigare verso ovest finché non si torni al punto di
partenza. Tutti questi dati, non
passerebbero per il giudizio di chi li osserva,
ma si misurerebbero nel confronto
tra le cose materiali.
Invece, Plinio si accontenta di terminare
il discorso così: la sfericità del mondo è l’unica teoria che appaga la richiesta dei nostri
occhi, che sentono il bisogno
di motivarsi la curvatura che vedono. Essi probant, cioè “approvano”, ovvero, a questo
punto, anche “giustificano”, che il mondo sia sferico.
Riassumendo, sulle occorrenze della probatio provenienti da testi di natura
scientifica possiamo affermare che, per
gli autori di
tali testi, la probatio è un esame da compiere,
con i sensi, su un oggetto.
Non primariamente per conoscerne le qualità
intrinseche -per quanto non sia escluso farsene un’idea- ma per verificare come l’oggetto reagisce agli stimoli e se può, quindi,
essere coerente con le aspettative che si nutrono
su di esso.
La probatio dei Latini nel 187 a.C. (Liv. 39.3)
Veniamo adesso a un altro luogo che testimonia un utilizzo
amministrativo della
probatio, e cioè l’espulsione forzosa dei Latini dall’Urbe
nel 187 a.C .
legatis deinde sociorum Latini nominis, qui toto undique ex Latio frequentes conuenerant, senatus datus est. his querentibus magnam multitudinem ciuium suorum Romam commigrasse et ibi censos esse, Q. Terentio
Culleoni praetori negotium datum est, ut eos conquireret, et quem C. Claudio M. Liuio censoribus postue eos censores
ipsum parentemue eius apud se censum
esse probassent socii, ut redire eo cogeret,
ubi censi essent. hac conquisitione duodecim milia Latinorum domos
redierunt, iam tum multitudine alienigenarum urbem onerante. [Liv. 39.3.5]
Il caso è molto conosciuto e variamente commentato: nell’incapacità di corrispondere alle leve richieste da Roma nel primo periodo
postannibalico, le città latine (secondo la tradizione tutte, ex toto Latio) rifiutano per qualche tempo di continuare a prestare
la formula, cioè il numero di leve stabilito dal foedus che hanno con Roma. Il motivo cogente
per cui non riescono a fornire
i loro contingenti è dovuto, a loro avviso, al fatto che molti loro cittadini si sono trasferiti a Roma e si sono fatti registrare nella cittadinanza romana.
Il senato romano, allora, affinché questa scusa possa cadere, incarica il pretore
peregrino, Terenzio Culleone, di reperire
questi ex-Latini e di restituirli ai delegati delle città. Terenzio
effettua il suo negotium, arrestando in pochi giorni più di 12 mila persone.
Queste vengono poi sottoposte alla probatio degli
alleati latini perché possano riaccettarli (ed eventualmente ridistribuirli) nelle loro comunità.
Le difficoltà di ricostruzione storica sollevate da questo brano liviano
sono innumerevoli e non è il caso di ripercorrerle qui.[22] In questa sede, interessa
esclusivamente mettere in evidenza tutte le possibilità interpretative che, in questo caso, avrebbe potuto assumere la probatio come procedura amministrativa.
In via preliminare, bisogna precisare che i fatti del 187 a.C. non riguardano l’istituzione di una quaestio, come invece sarà per l’analoga espulsione del 177 (Liv. 41.1). Pertanto,
tutti i riferimenti ciceroniani, dove il temine vale per “prova
processuale”, non sono qui utilizzabili. Rimane allora l’accezione di “approvazione/certificazione”, di cui al precedente punto 2).
L’elemento caratteristico di questo caso particolare, è il fatto che coloro che effettuano la probatio sono persone diverse
da coloro che effettuano il recupero
delle persone in sospetto di “latinità”. La posizione dei delegati latini in tutta questa storia è tale per
cui essi si trovano ad esaminare
gli arrestati quando il pretore Culleone, del quale è lecito presumere
una posizione di forza rispetto
ai delegati, ha già stabilito
che quelli, da lui reperiti,
sono i Latini da ricondurre. Cioè, i Latini sono già stati, per forza di cose, probati
come tali da Culleone.
La portata concreta del caso, pertanto,
risiede nel fatto che i Latini
possono eventualmente rigettare la proposta
di Culleone in merito a qualcuno
dei “Latini” ad essi presentati. Si trovano
nella condizione di accettare o rifiutare
una proposta, non in quella di compiere
delle indagini. Già questo dovrebbe essere sufficiente a far comprendere come, dietro la procedura di probatio, almeno in questo specifico
caso, non ci siano margini per supporre un esame approfondito dei singoli casi, ammesso
che poi fossero
a disposizione dei parametri chiari su cui andare a compiere un’indagine.
Bisogna poi tenere presente che i delegati latini, almeno nel 187, non hanno avanzato alcuna richiesta
esplicita di recupero.
La loro intenzione era solo quella di giustificare il mancato
apporto di truppe.
È il senato romano che ha promosso
la ricerca, reperendo 12 mila persone
da attribuire alle comunità
latine, in modo che possano, almeno in parte,
essere alleviati nella prestazione della formula.
La probatio degli alleati Latini, pertanto,
si svolge non sull’identificazione neutra delle persone
sottoposte al loro esame, ma sull’intera procedura messa in atto del senato romano. I delegati latini devono probare ognuno di coloro che sono stati loro sottoposti apud se censum esse, secondo le regole temporali
che il senato romano ha posto come limite.
Questi limiti temporali non sono neutri. “C. Claudio M. Livio censoribus”, siamo nel 206 a.C. Questa censura
è rilevante, perché fu quella che registrò
le liste delle comunità latine ribelli nel 209, le quali erano state punite,
tra le altre cose, con una precisa
rendicontazione delle loro liste censuali.[23]
Tali liste censuali– e solo di queste comunità
punite-[24]dovevano essere
in possesso delle
autorità romane. È lo stesso
testo liviano che correla il reperimento dei Latini a Roma con il termine
del 206 a.C.,
consentendo la seguente interpretazione: dato che quelle comunità
erano punite e dunque costrette ad intensificare
il proprio munus, i diretti
interessati avranno
cercato di sottrarsi
a questo trasferendosi nel luogo dove era meno probabile essere prelevati, cioè Roma. A questo
punto, sono possibili due scenari:
o Culleone, nel 187, reperisce
i Latini disponibili in base ad un confronto
solo di queste liste, oppure Culleone
reperisce i “Latini”
con criteri diversi,
ma poi pretende che la probatio dei Latini si svolga
in funzione di quelle liste, che sono le uniche
verificabili sia localmente che a Roma.
Gli strumenti burocratici a disposizione dei Romani
per affrontare la situazione erano tuttavia
quanto meno inadeguati. Le liste latine a loro disposizione, limitate
alle colonie ribelli,
erano ormai risalenti. Inoltre, un confronto
tra liste romane e liste latine per riscontrare chi effettivamente, tra quei Latini, si fosse fatto censire come romano non era agevole
per il numero di nomi da confrontare e comunque
anche difficilmente efficace
per il semplice motivo che i diretti interessati, almeno qualora non ne fosse nota una proprietà terriera, erano difficilmente rintracciabili sul campo solo a partire da dati generici
come nome e tribù romana (per forza di cose diversa da quella latina d’origine), per di più distribuiti su tre censimenti.[25]
Si trattava dunque
di svolgere, in poco
tempo, un’ispezione su più
livelli investigativi, con pochi dati certi
a disposizione e alti margini di errore
identificativo.
E tuttavia era ancora
possibile al pretore
compiere una conquisitio adeguata al suo obiettivo: reperire un certo numero di persone che potessero essere consegnate ai delegati
latini per essere, tramite loro, arruolati come effettivi nei contingenti ausiliari.
Una volta, però, che il pretore aveva compiuto il suo dovere, e aveva quindi
arrestato queste 12 mila persone
-o forse anche di più, se i Latini preferirono, comunque, rifiutare
qualcuno- quale base potevano avere i delegati latini per operare
una probatio adeguata
alla realtà delle cose? Come fare a determinare che quelle
persone, prese una per una, erano in realtà ex-Latini o figli di ex-Latini?
Non rimaneva che basarsi sulla credibilità dell’indagine del pretore
e limitarsi, piuttosto, a espungere quelle
persone che, più in generale,
sembravano poco adatte
al compito che si imponeva loro, cioè l’arruolamento nelle legioni.
La probatio, dunque, poteva essere espressione più di un accordo
con il pretore che non una valutazione obiettiva dei soggetti esaminati. Giungiamo allora, proprio
alla duplice probatio dalla accezione “concordataria” ,[26] che si ritrova sia nelle orazioni ciceroniane che nel Digesto. Emerge,
cioè, un senso contrattualistico della probatio, come reciproco
riconoscimento di credibilità.
La probatio nella disciplina degli appalti
Queste considerazioni ci conducono
a riflettere sull’utilizzo, tecnico e preciso,
della probatio, legato all’ambito dei contratti edilizi. Il CIL riporta
numerose iscrizioni, ed è quasi impossibile non imbattercisi quando si studia una materia che ha a che fare con le costruzioni pubbliche, dove un magistrato, o comunque
un committente d’un’opera, fa apporre un’iscrizione
sulle mura della stessa con la
scritta del nome del magistrato e poi, bene in evidenza, variamente abbreviato, il suo PROBAVIT.[27]
La spiegazione generalmente accettata di questa procedura, che l’espressione summenzionata condensa, è “the mechanism
for establishing the quality of a building
constructed under the contract of locatio-conductio operis”.[28]
Questa definizione è alquanto
prudente nell’illustrare il reale contenuto
della procedura in oggetto, nel senso che non
descrive cosa implicasse l’esame di un’opera costruita.
Disponiamo, in realtà,
di ben pochi mezzi per un esame del genere:
appena qualche passo del Digesto, qualche
reperto epigrafico e un intenso passaggio delle Verrine
ciceroniane. La riflessione dei moderni
finora ha illustrato la contestualità della probatio rispetto alla normativa contrattuale per la realizzazione delle opere; rimane tuttavia ancora un vuoto intorno
alla procedura in sé, ai suoi contenuti.
Quando un magistrato andava a probare un
opus perfectum, cosa faceva,
concretamente, che procedure
applicava, o faceva
applicare?
Un primo passo per mettersi
sulla strada della comprensione di questo aspetto,
è tenere presente
che, nel processo
di edificazione, sono coinvolti
due attori: un committente (locator) e un esecutore (conductor, institor), che di solito compie (o fa compiere)
i lavori. Questi
due attori concordano tra loro le modalità
dell’opera da edificare e, per lo meno in una fase avanzata,
stipulano un contratto
scritto (lex) che descrive
gli accordi presi e le modalità
di pagamento.[29]
La condizione primaria perché gli accordi vadano a buon fine, è quella che, a fine lavoro,
il committente sia soddisfatto. La procedura di probatio sancisce l’avvenuta soddisfazione. Solo a questo punto, l’opera
passa dalla responsabilità del costruttore a quella del committente, e il primo riceve l’ultima
parte del compenso.
Questo che si è descritto, è più o meno il quadro
generale della questione.[30]
Se dovessimo ragionare
con criteri più vicini
a noi, ci sembrerebbe forse
opportuno che l’avvenuta soddisfazione del committente si avveri
sulla base del rispetto materiale e collaudato
dei contenuti del contratto stipulato con il costruttore. Ciò è vero anche in
Roma antica, ma è precisamente a questo livello di analisi, che la ricostruzione si complica.
Già il concetto
di contratto che emerge
dalle fonti, sotto questo determinato aspetto, è poco vincolante, per il semplice fatto che il contenuto
di esso, al di là di una qualche
superficiale ricerca del dettaglio, lascia molti spazi all’arbitrio. Le note tecniche
del contratto d’appalto, almeno per quel poco che ne sappiamo,
non sono sufficienti per garantire
margini di imparzialità nel collaudo.[31]
Nel 105 a.C. i sommi magistrati di Puteoli,
in accordo con il consilium duoviralium, approvarono e resero pubblico
(affiggendolo sotto gli occhi di ogni cittadino) un contratto
edilizio,[32] per un muro (paries) che separasse l’area del locale Tempio
di Serapide dalla
strada prospiciente. L’opera è stata affidata
ad un redemptor : costui ha dato dei beni a garanzia,
che i duumviri hanno opportunamente registrato. Dopo aver specificato questo, la maggior
parte del contratto
prosegue con tutte le più dettagliate notizie su dimensioni, disposizioni degli elementi
costruttivi (porte, aperture, ecc.) e materiali da utilizzare. Infine, dopo le specifiche tecniche, si trova questa clausola:
Hoc opus omne facito arbitratu duumvir(um) et duovira[l]ium qui
in
consilio esse solent Puteolis, dum ni minus viginti probaverint, probum esto; quod ieis inprobarint, inprobum esto. Dies operis: K.Novembr(is) primis. Dies pequni(ae): pars dimidia dabitur, ubi praedia satis subsignata
erunt; altera pars dimidia solvetur opere effecto
probatoque.
Torna innanzitutto una parola: arbitratus/arbitrium. Anche prima, si è visto che i beni del redemptor vengono registrati e valutati
arbitratu duumvirum. L’azione dell’ arbitratus non è un’ azione di convalida, ma di supervisione attiva e partecipe. I duumviri, cioè, si impegnano a presenziare per lo meno i momenti critici di quello
che si va svolgendo ed entrano
nel merito tecnico dei lavori.
Anche per questo,
probabilmente, sono coinvolti non solo i duumviri in carica, ma tutti qui in consilio
duumviralium solent, in numero
non minore di 20. Bisognerà dunque immaginare che il consiglio
si esprima una volta per tutte sull’andamento dei lavori,
mentre i duumviri visitano i cantieri per vedere come stanno andando le cose in
itinere ( questo il
senso dell’ arbitratus). Un punto per noi da chiarire
è che arbitratus e probatio appartengono allo stesso processo
di controllo dei lavori, ma non possono essere la stessa cosa;[33] perché infatti l’ arbitratus spetta ai duumviri, i quali probabilmente sono perciò chiamati a dirigere
i lavori e ciò significa
che si prenderanno la responsabilità di seguirli
in itinere, mentre la probatio spetta al consilium duoviralium, che determina l’approvazione finale.
Una ricostruzione siffatta trova conferma anche nel seguente caso, esaminato da Iavoleno:
Locavi opus faciendum
ita, ut pro opere
redemptori certam mercedem in dies singulos
darem: opus vitiosum factum est: an ex locato agere possim?
Respondit: si ita opus locasti,
ut bonitas eius tibi a
conductore adprobaretur, tametsi convenit,
ut in
singulas operas certa pecunia daretur, praestari
tamen tibi a conductore debet, si id opus vitiosum
factum est: non enim quicquam
interest, utrum uno pretio opus an in singulas operas collocatur, si modo universitas consummationis ad conductorem pertinuit. Poterit itaque ex locato cum eo agi, qui vitiosum opus fecerit. Nisi si ideo in operas singulas
merces constituta erit, ut arbitrio domini opus efficeretur: tum enim nihil conductor
praestare domino de bonitate
operis videtur. [D. 19. 2. 51.1 (Iavoleno)].
Il caso che il giurista
propone, prevede che il locator si rechi ogni giorno
all’officina, o al cantiere:
da un lato, egli fornisce materiali e mezzi e dall’altro verifica quello
che il conductor ha operato e, in base
a ciò
che vede, lo paga (merces). A un certo punto, però, il locator non si trova soddisfatto di come è venuta l’opera nel complesso. Il conductor ritiene che comunque, avendo lavorato, secondo contratto, deve essere pagato ugualmente (certa merces), ma il locator, non sentendosi soddisfatto di qualcosa,
gli contesta la paga versata
fino ad allora e
decide di fargli causa ex locato per chiedergli dei danni. La domanda posta al giurista è la seguente: è possibile
intentare questa precisa azione legale?
La risposta di Iavoleno
è molto puntuale:
1) la possibilità di esprimere
giudizi sul merito
dei lavori deve essere
scritta sul contratto: esso deve prevedere
esplicitamente che il conductor sottoponga (periodicamente?) i lavori alla probatio del locator.[34] La somma va pagata,
ma il conductor si deve impegnare a correggere il lavoro
in caso di viziosità; 2) non contano
le modalità di controllo
e pagamento: il conductor è tenuto a fornire
un lavoro che non abbia difetti, altrimenti è giusto
fargli causa. Quindi, se sbaglia, deve correggere a sue spese. Ovviamente, la viziosità è intesa qui come mancanza di perfezione, non come mancato rispetto della volontà
del committente, per la quale è necessaria una clausola
“de arbitrio domini”. Infatti Iavoleno, forse sulla base di qualche altro commentatore,[35] aggiunge un’altra nota: 3) se la modalità di pagamento
prevede che, oltre che pagato
per singole giornate
di lavoro, si svolga “arbitrio domini”, allora, a fine lavoro,
il conductor non è tenuto a dare prova del lavoro ultimato.[36]
Una spiegazione convincente di quest’ultima nota, è quella adottata da S. Martin;[37] cioè leggere
dietro l’arbitrium domini la presenza fisica quotidiana del dominus. Se il lavoro si svolge arbitrio domini, il padrone non può avanzare critiche a lavoro
finito, quando non le ha avanzate,
pur potendo, giorno per giorno.
Un’altra motivazione, che trova qualche
conforto altrove,[38] è quella che legge le modalità di controllo
come strettamente legate ai pagamenti: se il committente paga giorno per giorno,
a fine lavoro si troverà ad aver già pagato tutto. A quel punto, il costruttore è sciolto
da ogni responsabilità, che invece ricade sul committente. Contro
questa interpretazione “mercatistica” del
contratto, tuttavia,
Iavoleno sembra già aver ribadito più sopra che il pagamento segue un percorso
giuridico separato dal controllo
dei lavori. Nella misura in cui la sua interpretazione deve essere
intesa come corrente, almeno al tempo suo, l’ipotesi
“mercatistica” non può essere sostenuta.[39]
Bisogna sottolineare piuttosto che, secondo Iavoleno,
la clausola arbitrio domini deve
essere inserita nel contratto, cioè il dominus si impegna
per iscritto a presenziare ai lavori.
E questo è appunto ciò che si impegnano a fare i magistrati di Pozzuoli.
In effetti, anche se a coloro che stipulano il contratto
la differenza sfugge,
o comunque non è razionalizzata a dovere, il commentatore non si può esimere dal ravvisarla: arbitrium e probatio si presentano ai nostri occhi come due percorsi
approvativi distinti, per quanto miranti allo stesso fine.[40] Se il primo segue passo per passo i lavori,
il secondo garantisce sul processo giuridico- amministrativo. Così pertanto si può leggere la stessa espressione, senza dubbio tratta dalla prassi amministrativa, riferita da Livio ai censori, sub nutu atque arbitrio.[41] Più che indicare
un’identità tra l’una e l’altra
procedura, si evince invece
un processo a due fasi interconnesse. I censori (o il senato) approvano un progetto
amministrativamente -si vedrà in che termini-
e, separatamente, ne curano
lo svolgimento con una supervisione concreta. L’approvazione amministrativa, perciò, svolge una funzione diversa da quella “sul cantiere”. Né ha importanza che essa sia espressa prima o dopo rispetto
all’arbitrium. Il consenso amministrativo, in realtà,
concerne lo svolgimento nel suo complesso. Il nutus/probatio implica che l’organo amministrativo (magistrato, senato, assemblea locale, ecc.) dia un consenso
o comunque un placito
su un’opera. Questa approvazione è sia esecutiva, nel senso che autorizza ed implementa i lavori,
sia di approvazione, nel senso che prende atto e conferma
il risultato. L’ arbitrium, invece, è un vero e proprio controllo tecnico
-e, se previsto, deve essere espressamente inserito nel contratto- la probatio è un vaglio amministrativo che sancisce
il compiersi del contratto.
Si legga ad esempio,
in questo senso, questo passaggio della Lex Iulia repetundarum:
Illud quoque cavetur, ne in acceptum feratur opus publicum faciendum, frumentum publice dandum praebendum adprehendendum, sarta tecta tuenda, antequam
perfecta probata praestita lege
erunt. [D. 48. 11.7
(Lex Iulia
repetundarum), Macrone]
L’organo approvativo compie qui una funzione specifica : ferre in acceptum. Cioè, l’opera può essere, oppure anche non essere, già sul terreno;
ma, dice il legislatore, perché tale opus faciendum sia ritenuto valido, non esso in sé per sé, ma la lex, cioè il contratto che ne regola lo svolgimento, tale lex deve essere perfecta, probata, praestita. Si distingue dunque la funzione
amministrativa della
probatio: cioè la certificazione che vi è un contratto, che questo contratto ha i suoi contraenti riconosciuti, infine che l’opera realizzata (o da realizzarsi) effettivamente è basata
sul contratto.
Rispetto a questo,
l’arbitrium è cosa diversa. Esso riguarda i rapporti
diretti e concreti
tra locator e conductor (cioè gli attori del contratto) in merito allo svolgimento tecnico
dell’opera, sul cantiere.
Da questa prospettiva, allora, la definizione che Martin (seguendo
Samter) fornisce della probatio in materia di opere edilizie, risulta fuorviante: la probatio non va a verificare la “qualità
intrinseca del lavoro”.
A quello, ci si deve pensare
in fase di edificazione, ripartendo le responsabilità, variamente a seconda
del contratto, tra locator e conductor.
La probatio è invece una dichiarazione – fornita
dal locator/magistrato – che l’opera finita si riferisce
effettivamente a quella che il contratto
andava a definire
e, ancor di più e prima ancora, che quel contratto era legittimo, confezionato che fosse in questo o quel modo.
La probatio si presenta dunque, alternativamente, come una specie di “promessa d’opera” o di “dichiarazione di conformità formale”. Anche se non si parla esplicitamente di probatio, il seguente
luogo di Ulpiano
fa comprendere che, nella concezione
giuridica romana, esiste lo
spazio per un simile concetto di diritto, tutt’altro che astratto:
Illud sciendum est: si quis artificem
promiserit vel dixerit,
non utique perfectum
eum praestare debet, sed ad aliquem
modum peritum, ut neque consummatae scientiae accipias, neque rursum indoctum
esse in artificium: sufficiet igitur talem esse, quales volgo
artifices dicuntur. [D. 21.1.19. 4 (Ulpiano)]
Il passo si comprende bene se si vede che il suo obiettivo
non è la perfezione o meno dell’oggetto, ma il riferirsi
dell’oggetto – quale che sia il suo grado di
perfezione – a ciò che è stabilito
dal contratto. Cioè Ulpiano
vuole dire qui, che il lavoro è connesso
alla realizzazione del contratto di locazione, indipendentemente dal suo grado di perfezione. La garanzia di questa
connessione è appunto
-seppur non nominata esplicitamente- la probatio operis, che dunque non per forza lega il magistrato probante alla verifica
del grado di perfezione intrinseca dell’opera stessa.
In qualche modo, Ulpiano sgrava il probator da approfondite analisi sul lavoro, spostando l’attenzione sulla responsabilità e sull’abilità dell’artifex, o riserva
comunque questa discussione ad altra sede. Qui
vuole solo legare l’ artifex alla promessa da lui prestata
di soddisfazione del committente.
Con ancora più chiarezza, tutto questo discorso emerge dal seguente
luogo, tratto direttamente dall’editto del pretore:
pr. Si in lege locationis comprehensum sit,
ut
arbitratu domini opus adprobetur,
perinde habetur, ac si viri boni arbitrium comprehensum fuisset, idemque servatur, si alterius
cuiuslibet arbitrium comprehensum sit: nam fides bona exigit, ut arbitrium tale praestetur, quale viro bono convenit.
Idque arbitrium ad qualitatem operis, non ad prorogandum tempus, quod lege finitum sit, pertinet,
nisi id ipsum lege comprehensum sit. Quibus consequens est, ut
irrita sit adprobatio dolo conductoris facta, ut ex locato agi possit.
[D. 19, 2, 24 pr. (Paolo)]
La probatio è sempre eseguita, in generale,
intorno al contratto in sé e sul suo rapporto con i lavori. Però, solo se il contenuto del contratto lo prevede, in più, può esserci una clausola intorno all’arbitratus domini. Questa clausola
implica un controllo
mirato e specifico, ma non è obbligatoria, per cui, se essa è assente, o magari attenuata da un ben più generico arbitrium boni viri,[42] l’unica garanzia
sull’esito del contratto è data dalla fides. Questo significa che, alla fine dei lavori,
certamente il committente andrà sul luogo e valuterà
il lavoro finito, ma non opererà, a meno che il contratto non specifichi il contrario, un collaudo mirato
a mettere alla prova il costruttore, che non potrà essere messo in causa sulle scelte tecniche, se non quelle,
più generali, esplicitamente previste dal contratto, ma solo sul risultato nel complesso.[43] Per giudicare sul contenuto e obbligare il conductor a seguire i suoi dettami,
nel contratto ci vuole una specifica clausola
che trasferisca la supervisione sui lavori dal conductor al locator. La probatio, invece,
si compirà anche senza clausola,
cioè anche senza controllo tecnico,
perché sancisce l’efficacia e il completamento del contratto, non dell’opera.
La differenza è dunque notevole:
l’arbitratus mette in discussione, anche giuridicamente, il conductor sulla base tecnica dei lavori, la probatio è una certificazione amministrativa del buon fine complessivo.
La probatio verte prevalentemente sulla conformità del contratto
agli accordi presi. Una norma locale in materia edilizia della comunità africana di Utica, ad esempio,
prevedeva che i mattoni da costruzione fossero tutti di un certo tipo: tale norma era stata arbitrio
magistratus probata, cioè era stata prevista generalmente in tutti i contratti edilizi come arbitrium magistratuum.[44] In quel caso, perciò, la probatio era stata vincolata al rispetto di quella clausola
arbitrale. Senza la
clausola, la scelta dei mattoni
sarebbe spettata al conductor, a meno che il contratto non prevedesse diversamente.
Da respingere è poi l’interpretazione intorno al cosiddetto tempus probationis.[45] Si è ritenuto che, da un luogo di Vitruvio,[46] si potesse evincere che la probatio avesse una valenza tecnica e che, addirittura, per mettere in campo tale giudizio tecnico
bisognasse attendere un certo lasso di tempo per verificare come l’opera compiuta si comportava nei confronti
del tempo, delle intemperie e di altri fattori usuranti.
Il fraintendimento
parrà chiaro se si confronta l’uso tecnico-amministrativo del termine
probatio con quello che si è già detto
più sopra in questo studio sugli altri
impieghi dello stesso
termine, al di fuori della tematica strettamente contrattuale: è possibile che per probare un materiale si
debbano utilizzare, in generale, delle tecniche specifiche,[47] una delle quali potrebbe certamente
essere quella di attendere
del tempo per verificare come si comporta
una nuova costruzione o anche parte di essa. Ma questa specifica
probatio, nel testo di Vitruvio,
non è imputata al magistrato
qui probat il buon esito del contratto, ma al costruttore, se non addirittura allo specifico architectus, cioè al responsabile tecnico dei lavori. Il
tempo indicato è da comprendersi come all’interno di quello previsto
da contratto: quando un conductor dichiara perfectum il suo opus, lo farà perché i suoi architecti si sono già dati pena, con o senza il sostegno dell’
arbitrium del committente, di controllare che l’edificio sia terminato. Solo allora il locator si reca sul luogo e probat ufficialmente.
La probatio, in realtà,
non ha un suo specifico tempus, ma
segue un percorso diverso da quello dei lavori in senso tecnico:
è un controllo amministrativo sul rispetto dei termini contrattuali e sulla mancata
viziosità degli stessi. Essa svincola i contraenti dai reciproci
obblighi, sancendone la realizzazione. Tale controllo valida tutto il lavoro intrapreso, nel senso che conferma sia la ricognizione di ciò che va fatto e la discussione, più o meno consensuale tra le parti, dei termini del contratto, per terminare
con un’approvazione finale, sancendo
l’esaurimento del contratto, con il conseguente scioglimento dagli obblighi: il locator dai pagamenti, il conductor dalla responsabilità sul bene in oggetto.
La probatio del restauro al tempio di Castore
(Cic. Verr. 2.1.130-150)
Veniamo infine all’unico caso che ci rimane in cui possiamo verificare concretamente il comportamento di un magistrato qui probat. La circostanza, riferita nelle Verrine,[48] è molto famosa ed emblematica: si tratta dell’appalto, assegnato dal pretore
Verre nel 74 a.C., per il restauro del tempio
romano di Castore
e Polluce.[49]
L’appalto si trascinava già da diversi
anni. Nell’80 a.C. era stato assegnato ad un cavaliere romano, Publio Giunio, che però era
morto, lasciando a un figlio in minore
età i lavori in stato avanzato,
ma non ancora compiuti. Incompiuti erano sostanzialmente rimasti fino al 75, quando,
sotto i consoli
di quell’anno, i cantieri furono
riavviati e completati in meno di un anno. Il tempio era, sostanzialmente, già restaurato, al 1° gennaio 74, quando Gaio Verre divenne pretore. Ma siccome
l’opera non era ancora stata sottoposta a probatio, Verre era nel suo pieno diritto
quando, entrato in carica, decise di prendersene cura.
Fatto sta che, ai naturali redemptores dell’appalto, cioè i tutori (abbastanza numerosi) del figlio minorenne
del defunto P.Giunio,
ormai rimaneva ben poco da fare.
Cerchiamo dunque di prescindere dalle molteplici note di colore con cui Cicerone cerca di screditare l’operato
di Verre, che nel suo racconto raffigura mentre tende solo ad accaparrarsi il maggior
guadagno ai limiti,
se non proprio in spregio,
della legalità, e vediamo invece di osservare
in cosa, a partire da questo testo, paiono
consistere tali limiti legali
concessi al pretore.
La prima azione di C. Verre in questa faccenda, è di contattare due dei numerosi tutori;[50] uno è un suo amico, certo L. Favonio,
l’altro è L. Abonio, che è il più diretto
di essi, perché zio del giovane Giunio Minore. Abonio
ha l’accesso diretto ai lavori del
tempio, per cui accompagna Verre in una prima
ricognizione sul campo.
Prima nota: Verre ha un suo seguito;
ma non si tratta di esperti
di architettura, o ingegneri. Quelli che Cicerone
chiama poco benevolmente “cani”, sono in realtà dei clienti,
i quali accompagnano Verre in ogni circostanza.[51] Si limitano a girare per tutto
il tempio e Verre cerca in qualche
modo di trovare il pelo nell’uovo. Verre non si serve di nessun esperto,
di nessuno strumento
tecnico , nessun collaudo pratico. Si reca al tempio,
e lo visita, come un qualsiasi
visitatore: gli unici commenti sono che tutto è stuccato, tutto è nuovo di zecca.
Venit ipse in aedem Castoris, considerat templum; videt undique tectum pulcherrime laqueatum, praeterea cetera nova atque integra. [Cic. Verr. 2.1.133]
Se mai qualcuno
potesse pensare che Verre avesse intenzione di compiere
un’ispezione di collaudo,
qualsiasi architetto a noi contemporaneo inorridirebbe di un collaudo
compiuto così. Nessuna perizia viene compiuta sui materiali, sulle pendenze, sulle simmetrie, sugli stessi costi.[52]
Finché, uno di questi amici di Verre , a fine visita,
probabilmente positivamente impressionato per ciò che ha visto e inconsapevole di qualsiasi
conseguenza che potrebbe causare il suo commento,
esclama:
“ ‘Tu, Verres, hic quod moliare nihil habes, nisi forte vis ad perpendiculum columnas exigere’. Homo omnium rerum imperitus quaerit, quid sit ad perpendiculum: dicunt ei fere nullam esse columnam quae ad perpendiculum esse possit. ‘Nam mehercule’, inquit, ‘sic agamus; columnae ad
perpendiculum exigantur’ ” [Cic. Verr. id.
133]
Bisogna cercare di non lasciarsi trascinare dal malizioso
sarcasmo di Cicerone.
Al di là della assurdità
dei contenuti, è molto probabile che i magistrati che si trovavano
a discutere sull’efficacia complessiva delle opere pubbliche – appunto
di questo si trattava
nella probatio contrattuale – non si comportassero in modo molto diverso
da Verre. Si noti come è concepito
l’ordine: “Nam mehercule”, inquit, “sic agamus. Columnae ad perpendiculum exigantur”. L’imperiosità del comando
è sarcasticamente a contrasto con l’intenzione colloquiale della prima parte della frase.
La seconda parte è un comando magistratuale, un
dettame da considerare a modifica del contratto. Perché questo è il punto fondamentale: il contratto.
Abonio infatti, il quale, come tutore
del figlio di P. Giunio,
ne era probabilmente
un sottoscrittore, tenta di avanzare obiezioni
proprio in riferimento al contratto. Di fronte alla richiesta
formale di Verre, la sua prima linea di difesa non è quella
tecnica, ma quella contrattuale. Apprendiamo dunque (§ 134) che tale contratto
non riportava notizie sulla metodologia specifica con cui dovevano venire erette le colonne,
ma solo in relazione
al loro numero. A tal riguardo, nel contratto, Abonio non trova alcun “deberi”, e quindi il magistrato, egli ritiene, non
può opporre alcun “exigi”. Ciò a conferma che il momento della probatio, normalmente, non implicava altro che una verifica del rispetto
contrattuale, di un contratto che manteneva
al minimo gli aspetti tecnici.
Abbiamo già parlato
della lex parieti faciendo: in quella legge venivano date varie specifiche costruttive relative ai materiali
e alle dimensioni. Cicerone
qui vuole sostenere
esattamente ciò che emerge nella legge di Pozzuoli,
cioè che tali prescrizioni dovevano essere inserite normalmente nei contratti
e che, una volta stipulati, anche i magistrati ci si dovevano
attenere, senza poter mutare le clausole
d’imperio.[53] Nel caso specifico, la lex censoria è intesa come un modello,
garantito dai censori,
alle cui linee generali tutti i contratti
di edilizia pubblica
devono adeguarsi. Quando Abonio sottolinea che la specifica richiesta di Verre non è prevista nel contratto, quest’ultimo sembra aver pochi argomenti
da ribattere; invita Abonio al silenzio con la sola giustificazione che ci sarebbe del guadagno
anche per lui.
Possiamo dunque asserire che i
contratti specifici si attengono alle linee generali della lex censoria e che il magistrato, di norma, non muta tali contratti
dopo che essi sono stati
già sottoscritti; l’eventuale
probatio è relativa solo
alla loro convalida, non dovrebbe implicarne la modifica. Cicerone,
di fatto, accusa Verre proprio
di aver mutato i termini
del contratto a lavoro ultimato. Questa accusa, se da un lato manifesta la possibilità, per il magistrato, di agire in tal senso, dall’altro rivela
che tale comportamento poteva essere considerato alla stregua di un abuso di potere.
Può essere
utile a questo
punto chiarire in poche parole
cosa Verre volesse
trarre da una così irregolare gestione. Verre voleva
dichiarare l’opera non probata: questo significava che Abonio
e gli altri tutori del piccolo Giunio,
i quali avevano
condotto a loro spese i lavori a regola d’arte
e praticamente fino alla fine, non avrebbero percepito almeno l’ultima
parte del compenso. Verre voleva poi riassegnare l’appalto, a un uomo di sua fiducia.
Dato che l’opera
era finita, i lavori sarebbero stati nulli, quindi poco costosi;
egli avrebbe però gonfiato i costi in modo arbitrario, sulla base di riparazioni e modifiche all’opera
solo supposte, e li avrebbe
pagati trasferendo il denaro dall’erario al suo uomo. In un secondo momento, egli avrebbe
incamerato, da quest’ultimo, una percentuale sull’intera operazione.
Cicerone ci informa
che la lex censoria prevedeva un atteggiamento di verifica
dei termini contrattuali: vi è un quem ad modum da rispettare che riguarda
il lavoro finito e
la probatio cura
esplicitamente ne vitiosum opus, ma tutto questo
riconoscimento non è basato su esplicitati parametri oggettivi, indipendenti dalla discrezione del magistrato. In gioco, semmai, c’è la sua reputazione, non l’opera in sé. Il magistrato (§148) probante fissa il tempo della consegna
e la consegna avvenuta deve essere pubblicamente registrata (in acceptum referre).
Quando Verre infatti, per il suo interesse, cambia i termini
dell’accordo in senso tecnico,
esigendo che le colonne siano eseguite “a perpendicolo”, Cicerone commenta
che questa è nova res, perché la lex normalmente indicava solo il numero di quelle
da restaurare, non come andassero
restaurate tecnicamente, o quali materiali fossero utilizzati, ecc. L’eventuale vitium era dunque da ricercarsi o in qualche
imperfezione di tipo generico, esposta alla vista del magistrato probante, o in un mancato
rispetto del contratto.
Nelle osservazioni di Cicerone
è possibile scorgere
tanto alcuni termini del contratto, quanto valutare l’impatto che le modifiche introdotte da Verre hanno causato
sui termini generali dell’accordo.
Questa è la lista delle modifiche segnalate da Cicerone
come indebitamente introdotte da Verre (§146):
1)
Socium ne admittito
2)
Si quid operis causa rescideris, reficito
3)
Qui redemerit satis det damni infecti ei qui a vetere redemptore accepit
4)
Pecunia praesens solvetur
5)
Hoc opus bonum suo cuique facito
Secondo l’oratore, queste clausole normalmente non comparivano, non perché inutili – anche se, in questo caso, sono ritenute scandalose perché mascherano un illecito – ma perché esse potevano, se il magistrato voleva, essere già comprese nella procedura di probatio (§143: at erat probatio tua, nel senso: “se volevi così, potevi esigerlo anche senza cambiare la lex”). Li possiamo rendere dunque come segue:
1)
Il magistrato controllava
che l’appalto avesse un
redemptor singolo, ovvero non venisse assegnato a cordate
di socii;
2)
Il magistrato
controllava che se qualcosa, durante i lavori, fosse andato
distrutto, venisse riparato da chi lo aveva danneggiato, a costo zero per il committente;
3)
Il magistrato controllava che chi recava danno all’opera, se poi cedeva
l’appalto, risarcisse il nuovo
appaltatore del danno eventualmente
commesso, in modo che non fosse quest’ultimo a pagarlo;
4)
Il magistrato controllava che i pagamenti (tra locator e redemptor
e tra i vari
redemptores) avvenissero, di fatto, davanti a lui.
5)
Il magistrato controllava che le spese necessarie ai lavori fossero
erogate a spese del conductor.
Queste clausole, secondo
Cicerone, furono aggiunte da Verre. Ciò significa che il Tempio
di Castore fu restaurato
seguendo un contratto che non le prevedeva. Se le escludiamo, si può osservare che la locatio dei lavori, normalmente, implicava le seguenti possibilità: 1) che vi fossero
appalti assegnati a societates; 2) che mezzi e materiali fossero forniti dal locator, indipendentemente dai costi sovvenuti
in corso d’opera,
in caso di danni procurati durante i lavori;[54] 3) in caso di cessione dell’appalto ad altro appaltatore, quest’ultima non poteva pretendere nulla dalla società cedente; 4) i pagamenti avvenivano in tempi e modi fissati dal contratto, ma non erano garantiti dal magistrato;[55] 5) le spese relative allo spostamento e alla provvigione dei materiali
spettavano al locator. Secondo Cicerone ciò era un obbligo
della locatio operis , la quale prevedeva
a carico del committente i mezzi e i materiali
per lavorare.
Al confronto, la lex censoria nella modalità modificata da Verre, a patto che non si generino corruzioni, è alquanto
semplificata per lo Stato:
impone infatti un solo responsabile dei lavori,
il quale si impegna
a pagare a spese sue qualsiasi spesa aggiuntiva a quanto
pattuito. Nel caso di cambio di appaltatore, lo Stato viene garantito
sulla base della stipula,
indipendentemente dall’effettivo stato dei lavori, anche se l’appaltatore cedente ha commesso delle irregolarità. Il magistrato è testimone
di ogni pagamento
eseguito e lo Stato non deve preoccuparsi di alcuno spostamento di materiali, che nel suo schema rientra nel carico dell’appaltatore.
Incentivare la responsabilità dell’appaltatore, rende più snella la procedura di probatio, perché si riduce ad un accordo
tra due sole persone:
l’appaltatore e il magistrato, senza bisogno di chiamare
in causa alcun attore terzo, che si occupi della verifica
delle responsabilità in corso d’opera. Anche senza queste modifiche, ovvero nella
modalità che Cicerone
preferisce, quella che i censori tradizionalmente imponevano, il magistrato poteva obbligare qualsiasi attore ai suoi arbitrî,
qualora fosse insoddisfatto dell’opera finita: ma tali attori potevano essere anche più d’uno e, soprattutto, avevano delle relazioni
tra di loro e con lo Stato che andavano
gestite. Limitando gli attori a due soltanto,
la legge modificata rendeva più facili gli accordi
e impostava una relazione
non molto diversa da quella che vigeva in ambito privato, tra dominus committente e institor, che organizza
i lavori. Certamente, la modifica,
nel caso specifico, veniva incontro
al progetto illecito di Verre. E, ciò nonostante, poteva venire legittimata proprio in funzione
di questi vantaggi
che si è detto a favore
del committente (in questo caso, la res publica).
La “probatio” e gli storici
latini.
La maggior
parte degli utilizzi
di “probare”, da solo o nei suoi composti,[56] in sede storica, riguardano il più generico
significato di “approvare, accettare”.[57] In ambito politico, specie
in riferimento all’età
repubblicana, assume il significato di “votazione positiva”,[58] oppure di “consenso” morale e decisionale.[59] Vi sono esempi che ricadono
nell’uso amministrativo (“probare causam”),[60] espressione che abbiamo
già visto, anche se l’espressione può assumere anche una sfumatura
decisionale, o politica
(nel senso di: “affermare le proprie
ragioni”). Queste che si è detto, sono le accezioni
più frequenti in ambito storiografico.
Vi sono però casi, anche in storiografia, di utilizzi più specifici, che si distinguono da questi che si è detto. Uno di essi impieghi l’abbiamo già esaminato, a proposito
del passo di Livio,
riguardante l’espulsione immigrati Latini a Roma nel 187 a.C. Di seguito,
ne abbiamo isolati altri quattro, che fanno da guida per altri,
meno rilevanti, ma soggetti a simile
interpretazione.
Tacito riferisce
il seguente episodio.[61] Durante la sua campagna in Germania (15 d.C.), il generale Germanico
e il suo esercito si imbattono nel campo di battaglia di Teutoburgo, dove Varo ha perso le sue tre legioni, sei anni prima. Lo
scenario che si presenta ai soldati è raccapricciante. I resti dei soldati romani sono ancora abbandonati in preda agli animali e alle intemperie. Il generale si dà da fare per dare degna sepoltura
ai caduti. Per valorizzare le sue pie intenzioni, decide di partecipare in prima persona
ai lavori. Questo
gesto, compiuto pubblicamente, assumeva ovviamente un intenso significato politico e forse anche religioso. Se ne sparge
subito la voce, parrebbe in senso positivo.
Eppure, quando l’accaduto viene relazionato all’imperatore Tiberio, egli, dice Tacito, “haud
probatur”. Diciamo subito che l’utilizzo
dell’espressione negativa con l’ “haud” è di tono solenne
e ufficiale, al punto che ci si può chiedere
se essa non derivi a Tacito, magari
indirettamente, da qualche
documento originale. La negata “probatio” dell’imperatore non è soltanto una disapprovazione del gesto. Essa infatti viene spiegata non solo con una motivazione occasionale, ovvero il ritardo
che la sepoltura dei caduti avrebbe comportato, ma se ne
sottolinea un’altra, ovvero che Germanico è áugure e, secondo
la religione tradizionale, gli áuguri non possono toccare i cadaveri.[62] L’ “haud probatur” va inquadrato in un contesto in cui Tiberio si pone in rapporto
di gerarchia rispetto
al nipote Germanico, quale un pontifex maximus si pone rispetto a un augur.[63] A partire da Augusto,
infatti, l’imperatore detiene
sia la carica
di pontifex maximus , sia lo ius augurium, che regola la disciplina degli áuguri.[64] La negazione della probatio, da parte di Tiberio, rispetto al gesto pietoso
di Germanico, implica
un messaggio di discredito del generale, che poteva avere delle ripercussioni soprattutto sui soldati ai suoi ordini. Se Germanico, partecipando con le sue mani alla sepoltura
dei cadaveri, si era macchiato, si poteva mettere in dubbio la sua capacità
di praticare gli auspici, attività richiesta a tutti i comandanti sul campo.[65] Questo uso della probatio non rientra nella semplice
approvazione e si riconduce
al significato giuridico
per cui un attore svolge
una certa azione
al cospetto di un magistrato, che può sancirla
o respingerla e testimonia come, anche in ambito religioso, i rapporti
istituzionali richiedevano delle relazioni di mutua approvazione delle funzioni.
Svetonioriferisce che il giovane
Ottaviano si faceva
chiamare Thurinus;[66] o perché, ancora
bambino, si era trasferito a Thurii con i genitori,
o perché il padre
Ottavio aveva fatto del bene agli abitanti
di quella città. Di quello che ha affermato fornisce
una probatio: si tratta di un piccola
immagine di bronzo
(imaginunculam
veterem), che evidentemente si usava confezionare per i bambini di nobile famiglia, la quale ritrae Ottaviano
bambino, con sotto scritta, exolescentibus litteris, la parola Thurinus. Dice Svetonio che egli è entrato in possesso di questo quadretto e l’ha donato
all’imperatore (Traiano), che l’ha riposto
poi tra i Lares del suo cubiculum. Questo simpatico
aneddoto, che riguarda
la persona di Svetonio, oltre che quella di Augusto,
ci consente di osservare l’uso del termine
probatio nel senso di testimonianza resa a fini di ricostruzione storica. Svetonio si dimostra consapevole che quella piccola figura di bronzo consente
di dar credito a quel soprannome che, altrimenti, sarebbe poco più che una diceria.
Si tratta, a tutti gli effetti,
di un documento di antichità, il quale ci consente
di osservare come lo storico antico si rapporti con esso, che tipo di metodo
usa per metterlo in relazione alla realtà di cui si sta occupando. Svetonio crede
che quell’immagine sia una prova della verità che, almeno da bambino,
Ottaviano fosse chiamato Thurinus. Bisogna però notare che, per convincere a pieno chi legge di quello che sta affermando, egli non riferisce
alcuni dati essenziali. Ad esempio,
non dice dove ha trovato
l’oggetto, né chi era il suo possessore prima di lui – informazioni
che qualsiasi storico moderno
riterrebbe prioritarie ai fini di
una
adeguata ricostruzione antiquaria. Dell’oggetto
in questione,
dice solo che l’ha trovato
(nactus), mentre poi è molto generoso
di dettagli sul suo dono all’imperatore e sull’uso che costui ne ha
fatto in casa sua. Per Svetonio, dunque, l’importanza storica dell’immagine è data non dall’oggetto in sé, ma dall’uso
che l’imperatore ne fa e dal fatto che era un dono dello storico al suo protettore. Il valore storico del dato antiquario
viene dunque distorto da Svetonio in chiave “narcisistica” (il reperimento, il dono, l’amicizia con l’imperatore, il rilievo
che l’imperatore riserva al dono fattogli).
Quanto alle exolescentibus litteris, fornisce il particolare evidentemente per valorizzare l’antichità e l’autenticità dell’oggetto, ma poi non si dà pensiero di chiarire
la loro risalenza
alla sua fabbricazione, oppure se sono state apposte più tardi. Tale interrogativo era legittimo e alla portata anche di Svetonio, dato che egli sapeva bene -lo dice poco più oltre- che, al tempo dei triumviri, Ottaviano veniva chiamato Thurinus da Antonio per offenderne in qualche modo la purezza
romana della nascita.
A quel tempo, qualcuno avrebbe potuto violare l’immagine, apponendovi la scritta,
il che spiegherebbe le exolescentibus litteris. Pertanto esse, di
per sé, non garantiscono l’autenticità, la risalenza, il contesto in cui fu apposta la scritta.
Nonostante questi comportamenti ricostruttivi, che dal punto di vista di un moderno studioso di antichità
potrebbero essere ritenuti alquanto grossolani, Svetonio usa la parola probatio in senso di “prova storica” e questo utilizzo
dimostra che lo storico antico conosce un senso della parola che ha a che fare con la “prova
storica”.[67] Ma, analogamente a quanto dicevamo
a proposito di Cicerone, essa non è fondamentale quanto la complicità con il
pubblico che decide di valorizzarla e l’autorità di coloro che la caldeggiano (come fa l’imperatore, che mette l’immagine di Ottaviano
bambino tra i suoi Lari personali, in tal modo venendo incontro alla credibilità dello storico).
L’uso di probatio come “prova” della verità, non dipende soltanto dal contesto
in cui il termine è
speso, quanto dalla mentalità
di chi lo utilizza.
È in effetti possibile
che Svetonio, nel passo ricordato, creda senza riserve
alla testimonianza dell’immagine di bronzo,
perché certi atteggiamenti analitici, necessari in contesti
temporali più vicini a noi, nel suo
ambiente non vengono riconosciuti. Questo risalta particolarmente quando si osservano i contenuti
che vengono presentati in sede di probatio dagli accusatori dei processi. Veniamo dunque al nostro terzo esmepio.
La vicenda che riguardò
il processo ai danni di Gneo Pisone
con l’accusa di aver avvelenato Germanico, è fin troppo famosa per ripercorrerla nei suoi dettagli in questa
sede.[68] In breve, Germanico si era spento
ad Antiochia e tra quelli che lo circondavano (amici adsistentes) si era diffusa
la voce che fosse stato avvelenato, indicando Pisone come principale indiziato. Dopo la sua morte,
fu inviato in Siria come governatore Gneo Senzio e si compirono delle indagini.
Tacito (Ann. 2.69.3) dice che, presso la residenza dove Germanico giaceva
ammalato, si erano trovati
resti umani insepolti, testi di incantesimi e fatture
e delle ceneri macchiate di sangue.
Si presentavano al governatore atti d’accusa ai danni di supposte “spie” di Pisone (missi a Pisone incusabantur). In questo clima generale, il nostro Gneo Senzio arresta una donna di nome Martina.
L’accusa (2.74.2) di omicidio
si basa su due elementi:
ella praticava l’arte
del veleno (infamem
veneficiis ea in provincia) ed era intima amica di Plancina,
moglie di Pisone (Plancinae percaram). Questo basta a Gneo Senzio per farla arrestare
e deportare a Roma. Ma Martina non giungerà
mai a destinazione, perché durante il viaggio,
giunta a Brindisi,
morì all’improvviso (subita morte extinctam). Siccome però nei suoi capelli fu trovato del veleno, (nodo crinium occultatum), si accusò Pisone
di averla fatta uccidere. Era chiaro a molti, dice Tacito, che egli avesse interesse a subvertere probationes (Ann. 3.7.1-2). In altre parole, il ragionamento degli accusatori di Pisone,
in Tacito, si può schematizzare in tre punti, come segue: 1) se Martina portava con sé del veleno, è vero che era un’avvelenatrice; 2) se Martina era un’avvelenatrice, allora essa costituiva una probatio valida per accusare
Pisone , e dunque egli aveva interesse
ad ucciderla; 3) se Martina
è morta, e Pisone
aveva interesse ad ucciderla, allora Pisone è accusabile anche della
sua morte.
Tacito connette in modo esplicito
(nam) -ovvero, attribuisce la connessione ad altri e ne riferisce il pensiero- la presenza
di Pisone in Grecia con la morte di Martina
a Brindisi. E quelli che pensano così -si comprende dal testo- ritengono
Martina una probatio
valida per dimostrare che sono stati Pisone e Plancina ad avvelenare Germanico prima e Martina
poi.
Al di là degli specifici
aspetti processuali, a noi interessa
capire cosa intendano gli ideatori
di questa storia per probatio. Alla luce di quanto osservato, possiamo dire che, per loro, la probatio è: “qualsiasi cosa abbia una qualche relazione logica con un oggetto, di cui bisogna trovare una spiegazione”. La necessità di chi utilizza le probationes in sede ricostruttiva -e la storiografia è una di queste sedi- è quella di elaborare
un quadro logicamente compiuto e la sua compiutezza pare bastare a ritenerlo
valido. In questo senso, si tratta di un’operazione retorica, perché si mette insieme un “racconto”, che giustifica degli eventi.
La ricerca delle probationes, lo abbiamo visto anche in Svetonio,
è un’azione tesa alla creazione
di un
senso condiviso da dare a quello
che accade. Che poi esista
uno scarto, tra questo
senso e la realtà esterna al ragionamento, discernerlo non è compito
specifico della probatio.[69] Semmai, si possono ipotizzare più probationes, ovvero più discorsi, contrastanti tra loro. La probatio fonda un discorso
dotato di senso proprio,
come appunto rilevava Quintiliano, come abbiamo già detto. Bisogna
però anche affermare che, se
torniamo al caso specifico, Tacito, dal tono generale
del suo racconto,
non sembra credere
che sia stato Pisone ad avvelenare
Germanico; egli nota alcuni elementi,
esterni al discorso,
che contraddicono le ricostruzioni accusatorie ai danni di Pisone e, di conseguenza, più volte insinua la possibilità per lo meno di un senso alternativo da dare agli eventi. Egli ricorda,
tra le altre cose, un carteggio
intervenuto tra Pisone e Tiberio.
Per ben tre volte sottolinea che i due erano in corrispondenza (2.78; 3.14;3.16) e che, durante il processo, Tiberio si oppose alla pubblica
lettura di quegli scritti.
Dice pure che, al processo, l’accusa
di avvelenamento finì per
sfumare (diluisse), in quanto
non si riuscì a dimostrare in quale momento Pisone avesse somministrato
il veleno a
Germanico.[70] Gli accusatori,
infatti, vollero sostenere che il veleno era stato somministrato dalle mani stesse di Pisone, durante uno specifico banchetto. Ma il banchetto
in questione si era tenuto nella
residenza antiochena di Germanico, per cui si riteneva difficile che Pisone potesse
avvelenarlo in una casa non sua, di fronte a servi fedeli al proprietario. Questi particolari, che Tacito riporta,
per quanto ci possano apparire non essenziali, ad ogni modo ci lasciano intendere che i contemporanei discutevano anche su eventuali incoerenze della
ricostruzione accusatoria. Essi dibattevano e ricercavano le imperfezioni logiche, con il fine di sottolinearle. Tant’è che la sentenza epigrafica che riporta l’esito del processo
a Pisone, verte infine quasi esclusivamente sulle sue responsabilità politiche, preservando però, a sostegno
dell’accusa di omicidio
(mortis causam), la (supposta) testimonianza verbale dello stesso Germanico.[71]
Esiste poi una funzione,
ancora a servizio della storia,
ma più specificamente retorica del probare, che si può osservare in Floro,[72] nel luogo dove commenta
la distruzione di Cartagine: Quanta urbs deleta sit, ut de ceteris taceam, vel ignium mora probari
potest. Lo storico compie
un’operazione volta a stupire il lettore. Egli mette in relazione la quantità
di territorio distrutto
(quanta urbs) con il tempo che ci ha messo il fuoco a distruggerlo (mora ignium). La probatio, in questo caso, è puramente retorica,
perché di fatto, in assenza di dettagli
concreti, non c’è nulla da “provare”. Il ragionamento consiste
nel connettere, nella mente del lettore, due concetti astratti:
tempo e spazio. Funziona più o meno come segue: se l’incendio
durò così tanto (17 giorni),
doveva essere anche molto esteso.
Ma il numero 17 è sospetto (1 giorno per ogni anno di seconda guerra punica,[73] dato che questa era l’antica colpa che si voleva ancora punire durante l’ultima guerra con
Cartagine). In che senso, pertanto, la mora ignium “probat” la quanta urbs? Nel senso che il lettore è stimolato a rivivere, nella sua immaginazione, cosa possono significare 17 giorni di incendio. I Romani del tempo di Floro sanno bene cosa comportasse un incendio e la distruzione
che ne consegue.[74] La tradizione, pertanto, amplifica il dato e lo carica di valenze
simboliche,[75] anche senza alcun ulteriore dettaglio, con l’intento di suscitare
emozioni forti; sicché,
in Floro, sono le emozioni stesse del lettore che “probant” il discorso.
Siamo dunque nell’ambito retorico di cui diceva Quintiliano a proposito
dei suoi colleghi maestri di retorica,
cioè che la probatio si realizza quando l’ascoltatore
si
sente mosso al consenso.[76]
Conclusioni
Il termine probatio va in definitiva
osservato su due livelli. C’è un primo livello, che non necessita
di eccessive spiegazioni, per cui esso assume l’accezione veritativa e affermativa, tipica della sua etimologia *pro-bho(s), ovvero: “avanti,
manifesto, sì + essere”. Da ciò derivano
tutte le accezioni comuni, legate a: “approvare, dire di sì, confermare”. La questione si complica quando,
con il termine, più che un’azione conclusa, si vuole descrivere un processo, o anche un collegamento di più azioni tra loro. Nell’articolarsi delle relazioni sociali,
infatti, l’azione di “assentire, approvare, riconoscere come vero”
mette il soggetto
individuale di fronte al problema
di far coincidere la sua prospettiva con quella degli altri. Più la società è complessa,
più è difficile realizzare questa
condizione con una azione semplice; si rende piuttosto necessario inventarsi delle
procedure che, nella relazione, accompagnino passo per passo i soggetti coinvolti
dal discorso, a trovare una “verità” comune. Le accezioni
più complicate che abbiamo
illustrato, si riconducono tutte a questa necessità. In origine, la probatio è una semplice
azione, di assenso soggettivo, del tipo: “io dico: è così”. Questa azione di approvazione, può essere libera,
ma anche legata all’avverarsi di certe condizioni (ad esempio, quando si passano
al vaglio i validi alle armi, o si valutano
le merci in vendita).
Nasce l’esigenza, pertanto, di un processo strumentale, una procedura di verifica, nella quale l’azione dell’approvare si trasforma, da azione che era, in oggetto. Infine, è facile ricostruire il terzo stadio, dove l’oggetto
diventa terzo tra due soggetti
interagenti, che vogliono
accordarsi su di esso, del tipo: “io dico ‘questo’,
tu dici ‘questo’
”, dove la probatio è il quod, non il qui. Talvolta,
soprattutto negli autori della media e tarda antichità (Ammiano,
l’ Historia Augusta), l’oggetto della probatio può ricadere sullo stesso soggetto che approva,
nell’accezione del “far vedere, ostentare, essere la dimostrazione”. Questa descrizione teorica, può comprendere tutte le accezioni
che abbiamo esaminato nel dettaglio
sin qui. È evidente che questa concezione della probatio ha un suo fondamento sociale e relazionale e si fonda sulla volontà di creare consenso.
In questo senso, è un termine
radicalmente retorico, anche quando usato in sedi diverse
dal discorso pubblico.
EMMANUELE SANTAMATO
Università “Federico II” di Napoli
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[1] TLL X.2, s.v. probatio, 1451-1455 e s.v. probo, 1460-1464. Quanto alla derivazione etimologica del verbo probo, essa è strettamente
legata al verbo “essere”,
nella forma ricostruita *pro-bho(s), dove
pro-/purō- indica un elemento di affermazione,
preminenza, evidenza e –bho/-bhū appartiene
all’area semantica del verbo
“essere”, da cui deriva,ad esempio la voce latina fui (WALDE 1965 II: 366). È dunque evidente il legame primario con l’accezione veritativa, di “accertare, ribadire ciò che è, ciò
che è vero”. Corrisponde
dunque al greco δοκιµασία (Cic. de off. 1.144),
o πίστις (Quint. Inst. 5.10.8): Cf. ERNOUT (2001 II: 537).
[2] Ovviamente, un tale modo di argomentare si connette con l’utilizzo della cosiddetta argumentatio extra causam, della quale, sotto questa luce, evidenziamo un ulteriore profilo, quello
di “prova” alternativa a quella documentale. Cf. ALBRECHT
(1962); NARDUCCI (1997:4); PRICE WALLACH
(1989)
[3] Cicerone offre anche un importante brano teorico a questo proposito
(de or. 2.116-120), nel quale riconosce la distinzione tra ”[ad probandum
materies] quae non excogitantur ab oratore”, tra cui elenca “testimonia, pacta conventa, quaestiones, leges, senatus
consulta, res iudicatae, decreta, responsa” e “[ad probandum materies] quae non reperiuntur ab oratore”. Anche qui, sembra
dare maggior risalto
alle seconde, ritenute degne di una “explicationem magis inlustrem perpolitamque”, definendo invece le prime “omnia ingeni vel mediocris, exercitationis autem maximae”. Bisogna inoltre rilevare,
che l’azione del docere causas, richiamata a 2.117
in relazione alla probatio, così come descritta
nel passo
implica, come metodo, la sola esposizione degli argomenti, senza suggerire
alcuno sforzo di cogliere un nesso tra di essi. Il metodo suggerito, per il retore, consiste
nell’ elencare degli argomenti
a favore e/o degli argomenti
contro, arricchendoli per mezzo dell’eloquio, non di creare nessi dimostrativi colti all’interno delle cose stesse. A questo serve,
appunto, la copia argumentorum, cioè una specie di antologia
che isti qui docent usavano somministrare ai loro allievi perché imparassero a memoria alcune argomentazioni schematiche, da utilizzare “ad omnem usum similium rerum”. Cicerone invece
rivendica il fatto che, al contrario, egli, dall’alto della sua esperienza, era abituato a cercare in modo originale e personale le sue argomentazioni; quindi sconsiglia l’uso di tali antologie, che al massimo possono servire
per gli adulescentulos.
[4] O con l’istruzione, il docere, come ha segnalato HUS (1965:
87-88), che la descrive
come “technique du probare-docere”.
[5] Cic.
Verr. 2.1.101;
2.2.17; 2.3.69; 2.3.155; 2.3.164;
2.3.210; 2.4.31;
pro Flac.
938.
[6] Sul valore della
prova in Cicerone Cf. MOUSSY (2005);
RIGGSBY (2004:165-185); CRAIG (2004:187-213). Forse è eccessivo
ciò che dice RIGGSBY,
cioè che (p.179) “the abstracts
standards of proof of the Roman courts were very different from ours….the notion of ‘burden of proof’ was weakly
if at all developed”. Piuttosto è la retorica delle
arringhe che preferisce non insistere sugli elementi
cogenti di realtà, piuttosto che sulla suggestione. Cf. anche LONGO (1962:333-365)
[7] Sul passo, rilevante per il complesso studio delle manomissioni, esiste ampia bibliografia. Diamo qui soltanto
qualche cenno: METRO (1961); ROBLEDA
(1976: 154); BALESTRI FUMAGALLI (1984:54); VOLTERRA (1956); LEVI (1981);
DE DOMINICIS (1965);
LÓPEZ BARJA DE QUIROGA (1998).
[8] Quint. Inst. 9.1. Sulla struttura del discorso
retorico, Cf. ALETTI
(1990).
[9] Sul concetto di argumentum nella letteratura retorica e giuridica, Cf. MAYER-MALY (2008); EVANS (1976);
CALCANTE (1998).
Sull’ ἐπιχειρήµα, oltre alla classica monografia di KROLL (1936: 5-8), POLYCHRONOPOULOS (1979); CALBOLI MONTEFUSCO (1972); ANDERSON (2000: 55-56).
[10] Quint. Inst. 5.10.1.
[11] Cf. Quint. Inst. 5.8.9: “signum
vocatur….per quod alia res intellegitur, ut per sanguinem caedes”.
Il problema dell’affidarsi a ciò che i sensi percepiscono della realtà sta proprio in collegamenti di questo tipo.
Come è facile osservare, il fatto
di vedere del sangue non per forza dovrebbe implicare
un omicidio. Eppure, tale connessione per Quintiliano è possibile, a patto, come dice subito dopo, di avere loco testimonii, qualche altro indizio situazionale : “si inimicus, si minatus
ante”. Si tratta di una metodologia
d’indagine evidentemente intuitiva e basata sostanzialmente sull’opinione
di chi la compie o la costruisce. Quintiliano si rende benissimo conto
degli ambigui risvolti
di questa impostazione; infatti traccia
qualche esempio di utilizzo
negativo di tale metodo (5.8.12-16). Rimane il fatto che una soluzione
concreta non sa darla,
se non ponendola nella correttezza morale del giudicante: il buon giudice
giudicherà bene, il cattivo giudicherà male. Non si mette in discussione il metodo d’indagine. MOUSSY (2005:
37) riporta il giudizio
di BARTHES (1970: 199) sull’argomento della prova, che rilevava
come per noi moderni la prova “a chez nous une
connotation scientifique dont l’absence même définit les pisteis rhétoriques”.
[12] Cic.
pro Caec.
29. 85
[13] Cic.
pro Quint. 30
[14] Varr. RR 20
[15] Plin. NH 29.10; 12.26; 21. 17; 36. 40; 37.76. Sulle proprietà delle piante, come esempio di scienza applicata alla vita quotidiana, STANNARD (1982) ; per un’interpretazione in chiave morale dell’approccio scientifico pliniano, WALLACE-HADRILL (1990)
[16] Plin. Ep. 8.24.
[17] In questo senso si può leggere anche Amm. 21.16.5: “id enim evenire corporibus a lascivia
dimotis et luxu, diuturna
experimenta et probationes medendi
monstrarunt”. Le probationes medendi costituiscono l’esperienza medica, che discrimina
tra quali rimedi funzionano e quali non funzionano. Cf. Amm. 29.3.5; HA Diad. 4.1.
[18] Cic. de off. 1.144.
[19] Una sperimentazione oggettiva in senso moderno
non porrebbe altrettanti problemi di opportunità,
né comunque avrebbe
senso condurla su argomenti come la bellezza
o la prestanza fisica,
come invece qui avviene della probatio. Dal luogo di Cicerone
emerge che per lui un confronto
come “Ti piacciono più i biondi o più i mori?” avrebbe valore di probatio. Per un discorso
epistemologico sul modo di ragionare di Cicerone e Plinio,
LEHOUX (2012: 106-132).
[20] Sulla concezione naturalistica e panteistica del mondo in Plinio (NH 2.1-27), che solo in un secondo stadio di conoscenza viene poi trascesa,
alla maniera degli stoici, in una divinità che non si può più cogliere
con i sensi, Cf. BEAGON (20022: 26-54). Il sapere geografico di Plinio è ovviamente di base compilativa, Cf. DIHLE (1980:
121-137).
[21] Lo stesso approccio visivo alla probatio
lo si riscontra già in
Plauto, Trin. 812-813:
“iam dudum ebriust / quidvis
probari ei poterit” e in Lucrezio
de rer. Nat. 2.934-935: “huic satis illud erit planum facere atque probare / non fieri partum nisi concilio ante coacto”. Cf. ERNOUT,
ROBIN (1925: II. 337). Per l’espressione planum facere, che va intesa come “è evidente, è sotto gli occhi
di tutti…” Cf. MOUSSY (2005: part. 32).
[22] Per un resoconto delle principali problematiche Cf. LAFFI (1995: 45-58);
BROADHEAD (2004: 315-335); id. (2003: 131- 148);
[23] Con l’obbligo di: 1) munus militare doppio più 100 cavalieri
(o 300 fanti in alternativa); 2) obbligo di servizio
fuori d’Italia; 3) tributo aggiuntivo di 1 asse per ogni mille posseduti nell’erario locale; 4) consegna dei censimenti ai Romani; 5) adozione
di criteri romani per la loro redazione: Liv. 27,9 e 10. Vennero
poi punite: Liv. 29,15; 29,37,4. Cf. GABBA (1989: 202).
[24] Gli argomenti addotti
contro questa tesi da KREMER (2006: 627-645)
sembrano convincenti in ordine al fatto che tutte le comunità avessero
dei censimenti autonomi
e coordinati con Roma, ma non che Roma avesse
a disposizione le liste delle singole
comunità latine.
KREMER non tiene in considerazione il luogo di Polibio
(Pol. 2. 8-13), dove emerge che la disponibilità dei censi latini da parte di Roma era possibile solo in casi eccezionali, quali il tumultus
gallicus del
225 a.C.
[25] Tra il 206 e il 187 vi furono tre censimenti diversi.
[26] La stessa accezione
“concordataria” la troviamo espressa anche dalla traduzione di Gellio (NA 19.1.16), quando traduce
con il latino “probationes” il greco συνκαταθέσεις. Il verbo συγκατατίθηµι nella sua accezione
più materiale si traduce con “deporre
insieme” (EG 367 = IGVI 675a (III d.C.):
ἐµαυτὴν ζῶσα συγκατατέθηκα τάφῳ). Nell’iscrizione, il dolore della madre
per la morte della figlia si esprime
come un “mettersi insieme
viva, nella tomba” con essa.
[27] CIL I2 24;694; 698; 800; 1560; 1633; 1635; 2198; 2294; 2537; 2648. Cf. Liv. 4.22; 45.15. Per una disamina del materiale epigrafico in riferimento (anche)
alla probatio, è essenziale ancora
oggi il contributo di BISCARDI
(1960).
[28] MARTIN (1986: 321), che deriva la definizione riassumendo il pensiero
già di SAMTER
(1905:143). Sulla locatio
conductio, ARANGIO-RUIZ (1998: 345), ZIMMERMANN (1996: 338-384).
[29] In questo studio non si prenderanno in considerazione gli accordi
preliminari, che precedono la stipula
della lex, e che rientrano
nell’ambito giuridico della stipulatio; CANNATA
(1968: 193-96)
[30] Quale è emerso finora in tutta la dottrina
a riguardo: KASER (1957);
MAYER-MALY (1956: 189-192); MOLNÀR (1985: 583-679,
part. 654); MARTIN (1986:
321).
[31] Nel caso in oggetto,
è menzionato il numero delle colonne, ma nulla si dice sul modo di impiantarle. Altri dati tecnici potrebbero essere stati inseriti ma non menzionati da Cicerone. Tuttavia, Verre non avrebbe potuto compiere. Nella Lex Puteolana parieti faciendo (ILLRP 518
= CIL X 1781: 105 a.C.), unico esempio epigrafico di contratto
d’appalto pubblico, i dati tecnici relativi
ai materiali e le dimensioni del muro sono molti. Nulla viene detto, però, su come si voleva fosse fatta la costruzione. Questa mancanza è stata segnalata da ULRICH (2007: 179-181). Tuttavia, ANDERSON (1997: 74) giustifica questa assenza perché la legge la legge “is not a treatise
of construction”. Ma il punto è che, scritta
così, la legge non riesce
a mettere in grado l’incaricato del collaudo di verificare la fattura
dell’opera su base indipendente dalla sua discrezionalità. Per un altro commento
sulla legge vedi pure, cfr. WIEGAND
(1894: 661-778); GIULIANI (1990: 150).
[32] CIL X 1781 = ILS 5317
(Lex Puteolana
parieti faciendo).
[33] Contra CANNATA (1968: 202-203). In realtà, i due termini
probatio e arbitratus sono associati in un passo di Gellio (NA 19.1.16), traduzione di un luogo di Epitteto, ma soltanto per sottolineare l’accezione di “giudizio
volontario” che esse condividono. Cf. MOUSSY
(2005: 34)
[34] Il termine ad-probatio indica l’altra prospettiva della stessa probatio, vista cioè dalla parte di chi si presta all’approvazione.
[35] L’ultima proposizione è considerata spuria da vari commentatori, per i quali cfr. MARTIN
(1986: 330 n. 28). In generale, anche tutto il passo è molto
probabilmente stato rimaneggiato, perché il lessico
non è precisamente in linea
con lo stile dei giuristi classici.
[36] Non si comprende come THOMAS,
(1971: 678) possa paragonare questo testo di Iavoleno
con quello di
Alfeno (D. 19. 2. 30. 3) dove si utilizza il verbo admetiri per
poter valutare il pagamento in mensuras. Qui si parla di certa merces, mentre lì la misurazione fatta opere imperfecto non
può che essere compiuta sulla base di un progetto, non di un lavoro
già svolto.
[37] Cf. MARTIN (1986: 332).
[38] D. 19.2.36 (Florentino), e Cf. THOMAS (1971: 678)
[39] La questione è stata sollevata già da SAMTER (1905: 136-137),
che però, alquanto schematicamente e sulla base di un altro importante passo del Digesto
(D. 19.2.36) esplicitamente paragonava le due modalità di pagamento, in un’unica soluzione (aversione) e in parcelle
(in pedes mensurasve) alle modalità in uso nella Francia
del XVIII sec., per cui il pagamento
era vincolato strettamente alla supervisione solo nel caso del pagamento
ad unica soluzione. L’intuizione comparativa è ingegnosa
ed è in molta parte recepita da THOMAS; tuttavia, a MARTIN non pare che il testo di Florentino possa, di per sé, sostenere
tale confronto. In realtà, il pagamento, se pur segue la probatio non
risulta mai, nelle fonti, regolato da quest’ultima. Sono solo due fasi diverse delle operazioni. Cade pertanto anche la pretesa che i contratti pubblici
e quelli privati si dividano su questo punto: per il diritto romano
il contratto (la lex) è libero
tra i contraenti, che il committente sia un privato oppure un magistrato per conto del senato
locale, non fa
sostanziale differenza. Tutt’al più, nel caso del contratto pubblico,
la parte “statale”
è predominante su quella privata solo perché il potere
contrattuale in quel caso è per sua natura più forte.
D’altronde, il testo di Iavoleno parla chiaro: il lavoro compiuto va comunque pagato, anche in caso di inprobatio: poi, in caso di esplicito arbitrium, il costruttore è obbligato
a correggere secondo le indicazioni del committente, o comunque a consegnare un’opera non viziosa
e conforme al contratto.
[40] La relazione stretta tra arbitrium
e probatio è messa
in evidenza da TRISCIUOGLIO (1998: 100). Tuttavia, spiegare la seconda parola schiacciandola troppo sulla prima è forse rischioso. Sarebbe probabilmente il caso rivalutare il parere di CANNATA (1968: 197-199)
su questo punto. Sulla definizione tecnica del termine arbitrium fondamentale è D. 17.2.76 (Proculo),
che giustamente viene incrociato da CANNATA
con D. 29. 1. 24 (Paolo).
[41] Cf. Liv. 4. 8.2, racconto
della creazione della
censura nel 443 a.C., ma l’espressione potrebbe benissimo riferirsi, più in generale, a tutte le curatele magistratuali.
[42] Non si vede perché questo bonus vir dovrebbe
essere una terza persona (una vecchia
tesi di Albertario, poi ripresa da CANNATA,
(1968: 198), diversa
dal locator o dal conductor. Bene fa MARTIN a pensare a un generico “senso dell’opportunità” di chiunque compia l’opera,
che può essere benissimo
lo stesso redemptor. Cf.
D. 17. 2. 76 (Proculo).
[43] Per la distinzione tra probatio e arbitrium domini, cfr. CANNATA, (1968: 196-199).
Purtroppo questa visione
indipendente dei due concetti
non è stata seguita
dai successivi commentatori, che tendono sempre a confonderli.
[44] Cf. Vitr. 2.3. Ideo etiam Uticenses laterem, si sit aridus et ante quinquennium ductus, cum arbitrio magistratus fuerit ita probatus,
tunc utuntur in parietum structuris. È evidente, poi, che quando siamo al di fuori di una materia contrattuale, il significato di probare/probatus torna
a divenire meno tecnico, come in Vitr. 2, 8 dove si consiglia di provare
la testa di capitelli
[45] Cf. CANNATA
(1968:
204-208). Pertanto, è pure fuorviante l’interpretazione che vede in D. 19.2. 36 (Florentino) un accenno
al tempus probationis, nella frase si tamen vi maiore opus prius interciderit quam adprobaretur. Per vis maior la costruzione può cadere in ogni momento,
non è detto che si debba riservare un tempo specifico per verificare, quasi attendere, che crolli.
[46] Cf. Vitr. 2.8: de ipsa autem testa si sit optima seu vitiosa ad structuram statim nemo potest iudicare, quod in tempestatibus, et aetate, in tecto cum est conlocata, tunc si est firma probatur.
[47] Cf. più sopra ciò che diceva
Plinio sulla biacca e su altri materiali.
[48] Cic. Verr. 2. 1. 130-150. Per un resoconto della
pretura urbana di Verre,
cf. BRENNAN (2000: 445-448).
[49] Ultimamente gli archeologi hanno trovato traccia dei lavori di
manutenzione della metà
del I sec. NIELSE, POULSEN (eds., 1992, I: 10). Per l’importanza e l’utilizzo pubblico di questo tempio, STAMPER (2005: 56-58).
[50] Cic. Verr. 2.1. 132.
[51] Cf. Cic. Verr. 2.1.126,
dove il seguito di Verre è ancora una volta chiamato
con l’appellativo di “cani” a proposito del processo di Ligure, che non ha niente a che vedere con la materia edilizia,
trattandosi di un processo
per eredità.
[52] Uno studio condotto da un’equipe
guidata da P. Gros sulla Maison Carrée a Nîmes (AMY, GROS (eds.)
(1979), uno dei templi romani meglio conservati, evidenziò già trent’anni fa numerosi
errori di simmetria e di pendenza, nonché notevoli sviste nelle decorazioni dei capitelli. È molto probabile che errori simili fossero fisiologici. Perciò, se uno avesse voluto
trovare il pelo nell’uovo, sarebbe bastato consultare un esperto.
Cf. GROS (1983: 425-450).
[53] Possiamo ormai dire che, se ci fosse stata una clausola
de arbitrio, la situazione sarebbe
stata diversa, ma tale clausola evidentemente mancava
nel contratto che Cicerone
prende in oggetto qui.
[54] Diverso il caso, ovviamente, del lavoro che risulta danneggiato alla consegna; nel qual caso, paga ovviamente il conductor e vale quanto detto da Iavoleno a D. 19.2.51.1
(vedi sopra). Si può altresì
notare che, in assenza della clausola, introdotta da Verre, che impone il reficito, si rileva la possibilità di gonfiare
i costi dichiarando errori
in corso d’opera.
[55] Aggiungere questa clausola implica un cambiamento significativo. Se il magistrato partecipa
attivamente al passaggio
del denaro, a transazione avvenuta nessuno
può reclamare alcun danno, perché
sarebbe come una contestazione
dell’operato del magistrato dotato di potestas
e imperium, ovvero bisognerebbe accusarlo de repetundis, che
però è una causa
più difficile e costosa da intentare, rispetto ad una normale actio ex locato
davanti al pretore; se invece
il magistrato non c’è, si possono
denunciare irregolarità anche dopo l’avvenuto pagamento.
[56] Dagli esempi esaminati (elencati
più sotto), risulta che tra probo, adprobo e comprobo non
esistono significative sfumature di senso, possono essere utilizzati quasi in modo intercambiabile; se si vuole trovare una distinzione, adprobo
è utilizzato nel senso di approvazione assembleare di una decisione
politica e comprobo quando si vuole far risaltare la presenza
di più persone
o di più gruppi distinti che convengono sulla stessa decisione; probo assume talvolta una sfumatura morale,
o anche di legittimità istituzionale (se a probare
è un magistrato). Si tratta di distinzioni da non prendere
troppo rigidamente, perché negli esempi
si troveranno casi che smentiscono tale classificazione. La vera distinzione è piuttosto
nel contesto in cui i termini sono utilizzati: generico
(morale), politico,
amministrativo/processuale. Le forme probabilis, probabiliter, probator, seguono di conseguenza, a seconda dei tre contesti. Probabilis può assumere
un significato vicino al nostro “probabile” soltanto a Liv. 26.12 e a Svet. Iul. 30.
[57] Livio: 1.46; 3.37; 3.54; 5.9; 5.47; 5.55; 7.14 (probabilis); 9.11; 10.13; 22.45; 23.23; 24.1; 24.2; 24.31; 24.48; 26.14;
28.16 (probabilis); 30.3 (probabilis); 30.17; 31.31;
31.41; 33.28 (probabiliter); 34.33;
34.54 (probabilis); 34.62; 39.5; 40.11; 40.29 (probabilis); 40.37; 42.1; 42.10 (probatio “magistratuale”); 42.25; 42.41; 44.16. Sallustio: Cat.
37; Iug. 22; Iug. 30; Iug. 79; Iug. 8. Svetonio: Iul. 56; Iul. 65; Aug. 8; Aug. 12; Aug. 53; Aug. 62; Aug. 68; Cal. 4; Cal. 29; Claud. 16: Claud. 29; Ner. 31;
Ner. 44; Galb. 6; Galb. 17;
Vit.
3;. Velleio: 1.1; 2.46 (probabiliter); 2.47; 2.83; 2.113. Floro: 1.13; 1.18; 1.22; 2.13; 2.17. Tacito:
Ann. 1.29; 1.44; 1.58; 2.45; 3.16;3.75;
4.43; 5.1; 6.1 (5.6); 6.11; 15.20; 15.25; 15.48; 15.55; 15.64; 16.18; Hist. 1.48; 1.58 (probatio “magistratuale”); 2.26; 4.41; 4.56; 4.76; 5.17; Germ. 5; Agr. 5. Ammiano: 14.10; 18.2; 18.6; 20.8;
21.5; 22.1,4 (probabilis); 27.6; 28.5; 30.5 (probabilis); 31.12. Historia
Augusta: Ael. 3; 5; Av. Cass. 14; Alb. 1;
Get.
3; 5; 6; Elag. 13; Max. 4; Gord. 10; 25; Max. Balb.
17; Valer. 8; Gall. 14; Trig. Tyr. 3; 10; 12; 21; Tac. 4; 8. Aurelio Vittore:
de Caes. 4; 9; 42. De vir. Ill. 64 (probatio magistratuale”); Ep. De Caes. 46.3; 48.9. Orosio: 6.22
[58] Livio: 2.12 (probabilis); 3.29; 4.13; 4.38; 4.43; 4.48; 6.20; 7.37; 7.41; 9.34;10.17;10.35; 10.39; 21.3; 21.19; 23.2; 24.4; 25.7; 28.8; 33.31; 33.45 (probabilis); 34.3; 34.26; 34.48; 34.50; 36.7; 37.7; 37.16; 37.45; 37.52; 38.10; 38.47; 38.48; 39.36; 40.46; 41.15; 41.23;
42.47; 42.62; 43.5; 43.14; 44.36; Sallustio:
Cat. 50-51; Iug. 106; Hist. 48.17; 48.25;
48.27. Svetonio: Aug. 21 ; Aug. 35; Tib. 59; Galb. 16. Velleio: 2.13; 2.58; 2.62. Floro: 1.27. Tacito:
2.56: 3.12; 13.28; 14.18; 14.49; 15.59; Hist. 1.7; 2.92; Germ.
13; 18; Agr. 34. Ammiano: 15.8; 16.12; 21.13. Historia
Augusta: Adr. 18; Pert. 2; Macr. 6; Prob. 6. Aurelio
Vittore: de Caes. 25; 33; 34; de vir. Ill. 71. Orosio:
2.10; 5.5;
[59] Tale casistica si cristallizza poi nella sfumatura
del “far vedere, ostentare, dare prova lampante”. Ad esempio,
Ammiano: 24.5.12 (probator gestorum), 21.5.2: (laudari et probari); HA Marc. Aur. 27.1; Pesc. 3; 12; Alb. 3; Gord. 9; 17; 20; Max Balb. 5 ; Trig. Tyr.
1; 12; Aur. 25; 40; Ep. de Caes. 14.8; Oros. 1.1; 1.3; 1.8; 3.3; 4.17; 5.7; 7.6; 7.43. La stessa accezione
Ammiano stesso la ritrova in un passo delle Filippiche ciceroniane, che cita a 27.11.4:
quid interest inter suasorem
et probatorem?.
[60] Livio: 3.44; 3.69; 32.3 (probabilis); 34.21 (probabilis); 35.29 (probabilis); 36.35; 37.54 (probabilis);
38.42 (probabilis); 42.48 (probabilis). Svetonio:
Aug. 46; Aug.
51; Tib. 47; Ner. 32 (probabilis); Dom. 8. Tacito: Ann. 1.75; 4.42; 6.14; 6.42; Hist. 4.8; Agr. 42. Ammiano: 15.2 (probabilis); 15.5 (probabilis); 15.6 (probabilis); 16.6; 17.9 (probabilis); 20.2 (probabilis); 23.5 (probabilis); 26.1; 27.7;
28.6 (probabilis). Historia Augusta: Avid. Cass. 2; 12; Sett. Sev. 8; Macr. 12.
[61] Cf.
Tac. Ann. 1.62; Svet. Cal. 3
[62] Cf.
HOPE (2000: 154-155); PRICE (1987:66). Il divieto di contatto con i morti valeva per tutti i sacerdoti. Sia Augusto
al funerale di Agrippa,
che Tiberio a quello di Druso, interposero tra loro e il feretro
un velo, perché
fosse loro pubblicamente preclusa la vista
del defunto. Cf. Dio. Cass. 54.28.4-5; Sen. Cons. ad Marc. 15.3.
[63] Per la gerarchia
interna nel sacerdozio romano: Cf. KOWALSKI (1993/1995)
[64] Tale rapporto gerarchico tra pontifex
e augur era dovuto alla scelta di Augusto di accorpare
negli uffici del pontifex
maximus anche lo ius augurum. (Aug. RG 7 ; Svet. Aug. 32.1). Cf. BRENT (1999: 20-25). Anche nella raffigurazione dell’ Ara Pacis, Augusto,
come pontifex maximus
guida sia i pontifices che gli augures. Cf. BIANCHI (1994: 13-16).
[65] Almeno in epoca repubblicana, era molto importante
che, prima di una battaglia, il generale traesse buoni auspici.
Era noto ad esempio che Crasso, prima della disfatta
di Carre, ne avesse tratti
di pessimi (Cic. div. 1.29). L’ auspicium
era connesso
all’ imperium del generale e andare in battaglia
senza poter trarre auspici era segno di sicura
sconfitta (Liv. 22.1.5,
a proposito di Gaio Flaminio).
[66] Svet.
Aug. 7.1. Cf. DI VASTO
(1985).
[67] Allo stesso modo, Mario Massimo probabat
la discendenza di Marco Aurelio dal re Numa (HA Marc. Aur. 1.6) o una
lettera di Marco Aurelio probabat la rivolta di Avidio Cassio.
(HA Avid. Cass. 9.6). Altra lettera che probat: HA Max. Balb. 17. Questo modo di probare
per mezzo di fatti o citazioni
che concordano con quello che l’autore
vuole dire, torna poi in
Orosio, anche in senso cristiano: 3.8.7 (liquidissima probatione Iesu Christi); 3.23.65; 4.1.10;
6.20.3; 7.1.1; 7.6.8; 7.27.2;
7.33.18.
[68] Per uno schema generale degli eventi e per come sono essi distribuiti e trattati nella narrativa
tacitiana, Cf. DAMON (1999);
ECK (2000). Spunti per l’approfondimento della vicenda sono stati sollevati alla luce del ritrovamento della versione epigrafica del Senatus
consultum de Gn. Pisoni Patre, la quale è in linea con il racconto
tacitiano solo in parte: ECK (1996: 156-157);
POLLEICHTNER (2003). Per alcuni aspetti più precisamente processuali: KIEDORF
(1969: 246-251); ERMANN
(2002). Per i rapporti tra Tiberio, Germanico e Pisone:
SHOTTER (1974); RAPKE (1982);
BIRD (1987).
[69] Che questa sia la funzione della probatio è desumibile anche da Tac. Hist. 2.63, dove la frequentazione di Dolabella (amico
personale del defunto
Galba) con i soldati di stanza ad Ostia costituisce probatio
che egli stia per insorgere contro Vitellio.
[70] D’altra parte, che Germanico fosse stato avvelenato, secondo gli accusatori lo provava il fatto che, al momento della morte, gli uscì della saliva di bocca, e il cadavere presentava dei lividi sul corpo; inoltre,
quando si volle cremare il
corpo, il cuore rimase intatto: Plin. NH 11.187; Svet.
Cal. 1.2. Nessuna
di queste condizioni, ovviamente, è sufficiente a provare
nulla di concreto,
ma senz’altro potevano costituire
oggetto di probatio, nel senso che stiamo studiando. Bisogna rilevare, infine,
che il Senatus consultum epigrafico non riporta
alcun cenno all’avvelenamento, segno questo
che la probatio relativa a quegli argomenti non era stata considerata, in definitiva, sufficiente.
[71] Alla l. 27 del Senatus consultum, però, si afferma che Germanico stesso,
prima di morire, avrebbe detto
(ipse testatus sit),
che era Pisone la sua mortis causam. Cf. WALKER (1952: 121-126); DEVELIN (1983). La ricostruzione di senso è ammessa a patto che esista una probatio, ovvero
un legame logico che connetta il fatto con una sua spiegazione. Tacito stesso (Ann. 15.51) lamenta, ad esempio,
che Nerone aveva incarcerato una donna,
quando il suo accusatore non aveva alcuna probatio da
fornire, ma si limitava
a raccontare la sua storia cum indice. Lo storico riteneva poco credibili le accuse a Pisone,
nonostante vi fossero probationes a suo carico; in quest’altro caso, invece, dove la probatio
manca, ritiene l’accusa sostanzialmente vera ma, ciò nonostante, ritiene illegittimo (iudicium irritum) il comportamento di Nerone, che incarcera la donna, proprio perché nel discorso dell’accusatore mancava la probatio, che egli individua, in quel caso, nella possibilità di recare dei testimoni
(nullis testibus). La probatio, sembra intendere
Tacito, può essere vera o falsa, ma è comunque
parte imprescindibile di un processo legittimo. Cf. un
utilizzo simile di probatio
in senso processuale in Oros.
7.13.2.
[72] Cf. Flor. 1.21; Oros. 4.23; App. Pun.
129. Appiano segnala
6 giorni di saccheggio delle truppe di Scipione, mentre non dà alcun limite temporale
alla totale distruzione, che fu ordinata dal senato. Più o meno lo stesso
racconto in Dio. Cass. 21.70 (Zonara).
[73] La guerra era cominciata con la marcia di Annibale,
che partì alla fine di maggio del 218 a.C. e terminò
con la firma del trattato di pace, nei primi mesi del 201 a.C. (Liv. 30.44).
[74] Il famoso incendio di Roma era durato
6 giorni (Tac. Ann. 15.40.1). Sulla
frequenza e la prevenzione degli incendi a Roma, Cf. Gell. NA 15.1.3; Giov. 3.193-197. Cf. ROBINSON
(1977); BIFFI (2001).
[75] Un analogo effetto simbolico
era stato ricercato a proposito del famoso incendio di Roma sotto Nerone (Tac. Ann. 15.41.2). Per una lettura
dell’evento in Tacito: HOLSON (1976); MURGATROYD (2005).
[76] Floro utilizza la stessa accezione di probare a 2.7, laddove,
a proposito della ribellione servile del 131 a.C., lo schiavo
Euno prova (probaret) la sua ascendenza divina tramite la sua attività
di mangiafuoco. Analogamente, in Tacito (Ann. 2.45) Arminio usa la sconfitta di Varo come argomento
per provare (probatum) che i Romani
sono stati già cacciati
dalla Germania (Romanis eiectis) una volta.