Reseña /
Review
Roberto Nicolai
(Università di Roma “La Sapienza”)
John Marincola, On Writing History. From Herodotus to Herodian, translated with an
Introduction and Notes by J. M., London: Penguin Books, Penguin Random House
UK, 2017, pp. LXXI + 600 (ISBN 9780141393575)
Come è noto, l’antichità ci ha lasciato un solo
scritto teorico sulla storiografia, il Quomodo
historia conscribenda sit di Luciano di Samosata, che va ad affiancarsi
alle dichiarazioni programmatiche e di metodo degli storici e alle osservazioni
critiche di retori, come Cicerone e Dionigi di Alicarnasso, o di filosofi, come
Aristotele. John Marincola, uno dei maggiori studiosi contemporanei della
storiografia antica, propone in questo volume una selezione dei passi più
importanti in una nuova traduzione inglese preceduta da un’ampia introduzione e
accompagnata da schede di presentazione degli autori e da note collocate in
fondo al volume. Queste ultime, come dichiara l’A. (p. xvii), sono rivolte più
alle questioni storiografiche che non al contesto storico a cui i vari passi
fanno riferimento. Le traduzioni sono il più possibile vicine alla lettera del
testo, nel tentativo di far cogliere al lettore quanto più possibile
dell’originale e anche di evitare abbellimenti che potrebbero falsare la
percezione del lettore moderno (p. xviii s.).
In queste pagine mi soffermerò soprattutto
sull’Introduzione, nella quale l’A. propone le principali questioni aperte nel
campo della storiografia antica e offre una sintesi estremamente efficace del
suo modo di affrontarle, che, come mostra l’intero lavoro, è basato su un uso
critico delle categorie antiche.
Tra le considerazioni preliminari proposte
nell’Introduzione ne segnalo una di particolare importanza e troppo spesso
dimenticata: quella sulla perdita di grandissima parte della storiografia
antica (p. xxx s.). Appena accennato (p. xxxi) è un altro punto importante: la
varietà delle forme in cui è stata scritta la storia nel mondo antico. Il
genere storico infatti ha impiegato molto tempo a essere percepito come
qualcosa di autonomo e le opere che trattavano materia storica potevano essere
le più varie: Emile Cizek, a proposito della storiografia latina, ha parlato di
“galassia di generi”.[1] Per fare
soltanto un esempio, le opere di Senofonte che trattano materia storica sono
particolarmente difficili da classificare, in particolare Anabasi e Ciropedia, ma
non mancano problemi neanche per le Elleniche.[2] Più
sviluppata è la questione del rapporto con i predecessori, e in particolare con
i grandi modelli canonici, Erodoto e Tucidide (p. xxxi). Il rapporto con la
tradizione del genere storiografico è particolarmente delicato perché da un
lato gli storici cercavano di presentarsi come eredi di quella tradizione,
dall’altro prendevano le distanze, spesso polemicamente, dai loro immediati
predecessori. La natura polemica di molte dichiarazioni di metodo (p. xxxii),
come quelle di Polibio nel libro XII, impone una certa cautela nel valutarle, e
in particolare costringe a tener conto della funzione strumentale che svolgono.
Un’analoga considerazione si può fare anche per sezioni che contengono
importanti indicazioni programmatiche all’interno di una cornice dimostrativa:
è il caso dell’Archaiologia nel primo
libro di Tucidide.[3] L’A.
sottolinea la maggiore fortuna del modello tucidideo rispetto a quello erodoteo
(p. xxxiii), in questo seguendo una lunga tradizione di studi: bisogna però
tener conto anche delle tante opere storiografiche perdute, a partire dalle
storie generali di Eforo e di Anassimene, e del fraintendimento del modello
tucidideo, nato per rendere esemplare il racconto analitico di una guerra e
utilizzato per storie di impianto annalistico nel quadro del ciclo storico.
Il tema cruciale dello sviluppo del genere
storiografico nel IV secolo a.C. (p. xxxiv s.) porta a un riferimento,
ineludibile quanto problematico, al celebre saggio di Felix Jacoby del 1909,[4] a cui è
affiancato The Nature of History in Ancient Greece and Rome di Charles W. Fornara.[5] Il modello organicistico proposto da Jacoby
rispondeva al metodo positivistico del tempo e se da un lato era funzionale
alla classificazione degli autori ai fini della raccolta dei frammenti,
dall’altro produceva aporie, come, ad esempio, la collocazione di Ecateo come
primo storico e predecessore di Erodoto, una collocazione che non tiene conto
della centralità dell’interesse genealogico e dello stretto rapporto di Ecateo
con l’epos, di cui si era fatto interprete e continuatore. L’articolo di Jacoby
è stato per così dire canonizzato nel corso del XX secolo, anche ad opera di
Arnaldo Momigliano, oscurando altre linee di ricerca, come quelle proposte in
un’opera difficile, ma ricchissima di spunti come Il Pensiero storico classico
di Santo Mazzarino (Bari 1965-1966). Il limite principale dell’impostazione di
Jacoby è quello di prendere a pietra di paragone la moderna storiografia con le
sue aspirazioni scientifiche e di definire quindi implicitamente l’opera di Tucidide
come l’apice della storiografia antica.
Giustamente valorizzato (p. xxxv s.) è il proemio
del libro IX di Polibio con la sua distinzione delle ‘parti’ della storia e
delle categorie di lettori ad esse interessati. Si possono aggiungere due
considerazioni. In primo luogo Polibio sta rielaborando e specificando concetti
già presenti in Thuc. 1.22.4 e in particolare li sta adattando al panorama
culturale del suo tempo. Si tratta di un’operazione volta a dichiarare la sua
poetica (l’utile contrapposto al diletto) e a esaltare la propria scelta della
materia politica e militare. In secondo luogo Polibio fa capire che molta
produzione storiografica rientrava nella categoria di quella letteratura che
viene oggi definita ‘di consumo’, aprendo uno squarcio sui gusti di quello che
Guglielmo Cavallo ha chiamato, seguendo Virginia Woolf, il ‘lettore comune’.[6] Quest’ultimo
punto è sviluppato poco dopo, in chiusura di paragrafo (p. xxxvii), in un
interessante tentativo di individuare il livello socio-culturale del pubblico
interessato alla storia. Particolarmente apprezzabile è anche il cenno sulle
altre vie di conoscenza della storia: dall’oratoria alle arti figurative. Si
tratta di forme di trasmissione del sapere storico che rientrano nella
categoria della intentional history,[7] che,
peraltro, può essere utilmente usata anche per alcune opere di difficile classificazione,
specialmente sotto il profilo delle funzioni. Il problema di fondo, che aveva
ben compreso Mazzarino, è che non esiste una cesura netta tra la storiografia
‘seria’ o ‘alta’ e le altre forme di narrazione storica: esiste piuttosto
un’ampia zona grigia, con forme sperimentali e innovative che sono, per così
dire,
consustanziali al genere. Intendo dire che tutta la letteratura in prosa, non
avendo ab origine i vincoli dettati
dall’occasione di esecuzione, ha da sempre proposto forme inedite: le combinazioni
messe in opera da Tacito (p. xxxvii) si possono rintracciare già nel IV secolo
a.C.
Sul piano del metodo di indagine va segnalata
l’affermazione sulla sostanziale stabilità delle formulazioni di Tucidide (p.
xxxix), ovviamente in quegli storici, come Polibio, che si concentravano sulle
vicende politiche e militari. Se avessimo qualcosa in più della storiografia
locale e regionale troveremmo forse indicazioni di metodo almeno parzialmente
diverse. Lo stesso si può dire su un altro punto importante: l’uso dei
documenti.[8]
Certamente la storiografia narrativa relativa a fatti contemporanei ha
privilegiato le testimonianze rispetto ai documenti (p. xxxix), ma anche in
questo caso la storiografia locale e le varie forme dell’antiquaria seguivano
strade diverse.
Un altro punto importante a livello di metodo
sono le dichiarazioni degli autori a proposito delle loro fonti (p. xl): in
molti casi affermare di poter contare su fonti locali a proposito di terre
remote accresce la credibilità del racconto, ma spesso, andando ad analizzare
il modo di procedere degli storici, ci si accorge che la manipolazione delle
fonti è molto praticata. È questo il caso della ricostruzione erodotea della
vicenda di Elena in Egitto (2.112-120), che poggia su singoli elementi ricavati
da fonti egizie, ma li ricombina in un quadro che è integralmente erodoteo.[9]
Anche l’impegno richiesto allo storico (p. xl s.)
risente nelle formulazioni della necessità di catturare la benevolenza del
lettore: si tratta quindi in buona parte di una retorica paragonabile a quella
messa in atto nei proemi delle orazioni, quando si dichiara la difficoltà del
compito. Il paragrafo dedicato al tema della verità in storiografia (p. xli s.)
è una delle migliori trattazioni del problema, pur nella sua brevità. Che le
dichiarazioni di veridicità indichino fedeltà a quello che è veramente
accaduto, secondo il principio di Leopold von Ranke, è giustamente messo in
dubbio e si insiste sull’ampia gamma di significati sia dei termini che
indicano la menzogna e la falsificazione sia di ἀλήθεια e veritas,
che possono significare sia “what actually happened” sia “real life”.
Quest’ultimo significato “suggests an account more probable than true”.
All’esempio tratto dal De Thucydide
di Dionigi d’Alicarnasso (45 s.) se ne possono affiancare altri: un caso per me
molto indicativo è quello della critica di Polibio ai discorsi di Timeo nel
libro XII, critica tutta basata sull’inverosimiglianza delle parole che Timeo
fa pronunciare ai personaggi della sua opera. Alle categorie di menzogna e di verità
può essere utilmente aggiunta quella di verità paradigmatica (su questo vd.
anche le osservazioni di p. li s.), presente in varia misura e con funzioni
diverse in molta storiografia. Esemplare al riguardo è quello che afferma
Aristotele (pol. 1312a 1-4): αἱ
δὲ διὰ
καταφρόνησιν,
ὥσπερ
Σαρδανάπαλλον
ἰδών τις
ξαίνοντα μετὰ
τῶν γυναικῶν
(εἰ ἀληθῆ
ταῦτα οἱ
μυθολογοῦντες
λέγουσιν· εἰ δὲ
μὴ ἐπ᾽ ἐκείνου,
ἀλλ᾽ ἐπ᾽ ἄλλου
γε ἂν γένοιτο
τοῦτο ἀληθές) κτλ. Si torna in questo modo al problema, per me cruciale, della funzione: se
negli ultimi due secoli l’attività dello storico ha avuto per fine l’incremento
della conoscenza del passato ed è stata per lo più legata a una professione, in
genere la docenza universitaria, nell’antichità gli scopi che gli storici si
proponevano erano certamente diversi e nessuno ha mai insegnato
professionalmente la storia.
Al
concetto di verità sono strettamente legate le considerazioni su Bias and Impartiality, in particolare
quelle su bias, termine che in
italiano corrisponde a varie gradazioni di significato, dalla propensione al
pregiudizio fino alla faziosità. L’A. sottolinea giustamente il carattere
soggettivo della verità, che corrisponde all’assenza di pregiudizi e di
faziosità da parte dello storico e non alla veridicità del racconto fin nei
minimi dettagli (p. xlii s). Uno storico non imparziale finisce per alterare
deliberatamente i fatti storici (p. xliii), concetto, quello di ‘fatto storico’
di difficile definizione e di ancor più difficile delimitazione. Lo spazio
dedicato all’imparzialità e al suo contrario nella teoria antica conduce l’A. a
valorizzare molto questi concetti: “We might say, then, that this persistent
emphasis in the historians and literary critics on bias represents very well
the actual conditions under which history was written in classical antiquity”
(p. xlvi).
Se lo
scopo della storia sia l’utile o il diletto è tema dibattuto nell’antichità
sulle orme della discussione sullo scopo della poesia (p. xlvi). Il primo a
sottolineare l’utilità della sua opera è Tucidide (p. xlvii), che connette
l’utilità con l’accurata ricostruzione dei fatti, un punto per nulla scontato
nella storiografia antica e che ha contribuito a sovrapporre, erroneamente,
Tucidide alla storiografia moderna. L’unico storico antico che si è espresso
sul diletto è Duride di Samo, il quale, criticando Eforo e Teopompo,
rimproverava loro la mancanza di μίμησις e di ἡδονὴ ἐν τῷ φράσαι affermando che si
sarebbero limitati a γράφειν (FGrHist
76 F 1). Le numerose interpretazioni che sono state date di questa breve
formulazione, peraltro priva di contesto, hanno condotto o a usare il frammento
come prova dell’applicazione della teoria aristotelica della tragedia alla
storiografia (Schwartz) o a connetterlo all’opposizione parlato-scritto
(Gentili-Cerri) o a intenderlo in senso stilistico (Gray).[10]
Nella traduzione del passo ἡδονὴ ἐν
τῷ φράσαι è reso con “pleasure
in the recounting” (p. 40). Ora, se si escludono riferimenti ad Aristotele e
alla fantomatica storiografia tragica e anche alla γραφικὴ λέξις, resta da chiarire quale significato
stilistico si possa attribuire alla formulazione: se γράφειν significa trascrivere eventi in forma
piatta, dal lato opposto vi è la capacità di far vivere sotto gli occhi dei
lettori le scene e le situazioni descritte. Anche questo discusso frammento,
come il passo polibiano su Filarco (2. 56. 1 ss.), è certamente influenzato dallo
scopo polemico.
La
questione dell’esemplarità morale della storia e dei giudizi etici degli
storici (p. l-lii) è legata a quella più generale delle funzioni. Se ammettiamo
che tutta la storiografia propone paradigmi, possiamo individuare l’obiettivo prevalente
che questi paradigmi hanno: in Erodoto ad esempio la paradigmaticità etica non
è legata al giudizio sul comportamento dei personaggi, ma è più vicina a quella
della tragedia, nel desiderio di mostrare l’instabilità delle sorti umane e le
dinamiche del destino di popoli e di individui; in Tucidide l’esemplarità è
prevalentemente politico-militare, mentre dopo Socrate, già con Senofonte e con
Teopompo, l’esemplarità è connessa con il giudizio etico che viene dato dei
vari personaggi.
Il
rifiuto del μυθῶδες da parte di Tucidide (p. liii) comporta
qualche riflessione. Da un lato occorre mettere da parte le superfetazioni che
già a partire dall’antichità si sono stratificate sulla parola μῦθος, riportandola al suo significato di ‘racconto’ o,
al più, di ‘racconto tradizionale’. Dall’altro può essere utile esaminare in
quali forme gli storici, e non soltanto loro, hanno tentato di ricostruire il
più antico passato e per quale scopo. L’Archaiologia
di Tucidide è un discorso dimostrativo che mira ad affermare la superiorità
della guerra del Peloponneso su tutti i conflitti precedenti e, al tempo
stesso, quella dell’opera che la narra sulle opere di chi lo ha preceduto. Per
fare questo Tucidide si rifà alle indagini sulle primitive condizioni
dell’umanità e sul progresso umano che erano state proposte da personaggi come
Democrito, Protagora, Prodico e Ippia. Gli scopi erano ovviamente diversi, come
diversi sono i metodi impiegati.
L’attenzione alla teoria retorica della narratio (p. liii s.) non è motivata soltanto
dal fatto che in quella classificazione antica è menzionata la storia, ma anche
dall’estensione di quella teoria fino a coprire l’intero campo della
letteratura. Che nel passo di Sesto Empirico la storia vera sia distinta in
storia di dei, eroi e uomini, storia di luoghi e tempi e storia di azioni
mostra da un lato, come osserva a ragione l’A., che i Greci e i Romani non
potevano rinunciare a quella che consideravano la loro ‘storia antica’,
dall’altro che il concetto di verità sotteso a quella definizione è molto
differente dal nostro.
Il capitolo sulla retorica è una lucida ed
equilibrata sintesi su una delle questioni più dibattute a proposito della
storiografia antica. Punto di partenza è che “every narrative history is a
rhetorical creation by definition” e che di conseguenza non si deve di
necessità vedere un conflitto tra l’indagine storica e e la scrittura, più o
meno ornata, della storia (p. lv). A questa contrapposizione, diffusa anche tra
gli studiosi di storiografia, l’A. oppone un’idea storicamente fondata della
retorica antica come “a systematical study devoted to the best ways of
integrating content and form” (p. lvi). Per rafforzare ulteriormente questa
visione della retorica antica si può addurre il fatto che retorica e
storiografia condividono le tecniche di analisi e di ricostruzione dei fatti:
il lessico storiografico relativo a indizi e prove, ad esempio, è tutto di
derivazione retorica.[11]
L’ ἐνάργεια (p. lvii) entra
nella narrazione attraverso un aspetto spesso trascurato e che meriterebbe
maggiore attenzione: la descrizione, ἔκφρασις, descriptio. La moderna teoria letteraria
ha infatti emarginato la descrizione a favore della narrazione e solo in tempi
relativamente recenti si è capito che i due ambiti avevano ampi spazi di
sovrapposizione.[12] D’altro
canto, il termine ἔκφρασις, a partire da un
celebre saggio di Leo Spitzer del 1955, è stato impiegato nel significato
specializzato di ‘descrizione di un’opera d’arte’ e si è persa di vista la
teoria retorica antica, che individuava molti campi di applicazione: dalla
descrizione di persone a quella di azioni, di luoghi etc.
Una questione chiave, lasciata aperta, è relativa
alla valutazione da dare alla componente retorica nella storiografia, se sia
cioè soltanto un abbellimento, una sorta di glassa su un dolce, oppure se
faccia parte integrante, e non separabile, del dolce stesso (p. lvii). La prima
concezione è propria degli storici dell’antichità, la seconda è abitualmente
appannaggio degli storici della letteratura. A mio avviso – e credo in questo
di interpretare anche il pensiero di John Marincola – questa dicotomia deve
essere superata, ovviamente nel pieno rispetto delle competenze di storici e di
storici della letteratura, per arrivare a integrare metodi e strumenti di
indagine. L’uso di un testo storiografico antico come fonte storica dovrebbe
essere in ogni caso sempre preceduto da uno studio volto a comprendere le
scelte dell’autore, gli scopi che si proponeva e le conseguenze che questo ha
sull’opera.
Come è naturale, l’aspetto della storiografia più
influenzato dalla retorica sono i discorsi fatti pronunciare ai personaggi.
Mettendo da parte la famosa dichiarazione di metodo di Tucidide (1.22.1), su
cui tanto, forse troppo, si è scritto, è evidente che il punto di partenza non
può essere altro che la constatazione del fatto che la riproduzione verbatim delle parole pronunciate è
fuori questione, salvo per che brevi formulazioni, magari diventate
proverbiali, e che alcuni elementi di ricostruzione creativa sono essenziali
(così a p. lix). L’esigenza di introdurre discorsi anche in riferimento a
eventi lontani del tempo o su cui non vi erano notizie attendibili ha portato
di necessità a comporre discorsi sulla base del principio dell’appropriatezza
ai personaggi a cui venivano attribuiti e alle situazioni in cui erano
collocati. Ammettere che questo sia avvenuto non significa svalutare la
testimonianza degli storici antichi, ma comprenderla in modo più adeguato. La
considerazione conclusiva di questo paragrafo merita di essere riportata: “It
may seem that once again what is at issue here is not actuality but
appropriateness, not ‘truth’ as much as ‘real-life’, but the ancient were
assisted in this by their belief in the general continuity of character and
situation, the fact that the past was much like the present, and so such
‘timeless’ arguments were universal and
capable of being deployed whenever an appropriate situation presented itself”
(p. lx).
A proposito dello stile, l’esempio del diverso
comportamento di Dionigi d’Alicarnasso nelle opere retoriche e nell’opera
storica è molto indicativo: generi diversi impongono di affrontare le questioni
sotto prospettive del tutto diverse (lx) e le dichiarazioni di veridicità e di
disinteresse per lo stile nelle opere storiche fanno parte del bagaglio del
genere e rientrano nell’orizzonte di attesa del pubblico. I critici letterari
antichi, categoria moderna che si sovrappone in gran parte a quelle antiche di
grammatici e retori, avevano più interesse per la poesia che per la prosa, ma
non mancarono teorie retoriche dello stile appropriato alle opere di storia e
analisi stilistiche di storici. Il rapporto tra storiografia e poesia[13] è una
questione che non riguarda soltanto la teoria letteraria antica, ma anche
l’origine del genere storico, e in particolare il rapporto con l’epica, e la
prassi degli storici.
La breve conclusione contiene un evidente understatement, che l’Introduzione si
limiterebbe a “scratch the surface of the subject” (lxiii), e suggerisce un
tema di riflessione agli storici moderni, spesso fuorviati dall’idea della
storia come disciplina scientifica e dalla retorica dei numeri e delle
statistiche. La lettura dei testi raccolti nel volume può riportare al centro
del dibattito un tema che non si può considerare superato, e che non sarà mai
superato, proprio perché la storia non è scienza nel senso galileiano del
termine: come si deve scrivere la storia.
La raccolta dei testi comprende tutti i passi
principali e consente di avere un’idea piuttosto completa sia dei passi
programmatici degli storici sia delle valutazioni critiche di retori e
filosofi. Tra le assenze segnalo i due passi di Isocrate in cui vengono
elencati vari generi prosastici, tra cui la storiografia: antid. 45 e panath. 1. I
riferimenti bibliografici presenti nelle note all’Introduzione e ai testi,
selettivi come è giusto che siano in un un’opera del genere, sono tutti molto
mirati e segnalano contributi di grande importanza, in grado di offrire un
primo ma significativo orientamento al lettore. Il volume è completato da utili
indici: accanto all’indice dei passi tradotti e all’indice generale va
segnalato l’indice tematico, che permette una lettura trasversale dei passi
raccolti.
In conclusione, si può dire che un’autorità
riconosciuta nel campo degli studi di storiografia antica, come è John
Marincola, ha voluto mettere a disposizione degli studiosi, anche non
specialisti, una serie di testi in traduzione e un apparato di introduzioni e
di note che fornisce una guida sicura alla loro interpretazione. L’introduzione
generale condensa in poche pagine una messe ricchissima di osservazioni,
riuscendo ad essere allo stesso tempo chiara e di rara profondità.[14]
Roberto Nicolai
Università
di Roma
“La Sapienza”
Bibliografía
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[1] Vd. Cizek (1985).
[2] Vd.
p. xxiv e inoltre Nicolai (2006)
e Nicolai (2014).
[3] Vd.
Nicolai (2001).
[4] Vd. Jacoby
(1909).
[5] Vd. Fornara (1983: p. lxv, n. 18).
[6] Vd. Cavallo (2007).
[7] Vd. Gehrke (2001) e Foxhall, Gehrke, Luraghi (edd.) (2010).
[8] Vd. Biraschi, Desideri, Roda, Zecchini (edd.) (2003: 81-109).
[9] Vd. Nicolai (2012).
[10] Per
altre interpretazioni vd. la nota a p. 433 s.
[11] Vd. Butti De Lima
(1996).
[12] Rinvio per questo a Nicolai (2009).
[13] Su
cui vd. Funke (1986).
[14] Proyecto
de Investigación FFI2015-54765-P.